L’azione della Chiesa tridentina viene indagata in una diocesi della periferia meridionale non solo, e non tanto, attraverso l’attività dei suoi vescovi, spesso incompresi, impegnati a contrastare un forte potere feudale, a districarsi nel groviglio delle giurisdizioni, dei privilegi e delle immunità, ma anche dal punto di vista di quanti, sia laici che ecclesiastici, erano obbligati a confrontarsi con le normative provenienti da Roma. Le risposte fornite dai fedeli sul piano devozionale, i modelli di santità da essi proposti, i patronati, il mondo claustrale femminile, la stessa cultura del clero sono parsi altrettanti osservatori privilegiati per misurare i modi e i tempi di ricezione del messaggio ufficiale della Chiesa. Quanto di ciò che nei secoli era stato veicolato dalle istituzioni ecclesiastiche era diventato parte integrante del tessuto sociale? Quanto forti erano state le resistenze opposte dai fedeli e dal clero stesso, ancorati a comportamenti sedimentati nel tempo? In quale misura la pluralità delle forze attive in periferia era riuscita a frenare in materia di comportamenti religiosi e cultuali la tendenza centrifuga romana? Nel cercare di rispondere a queste domande, sullo sfondo di una diocesi a prima vista recalcitrante di fronte alle novità, arroccata nelle sue consuetudini, si presentano davanti ai nostri occhi inaspettati guizzi di modernità. Ci accorgiamo della convocazione, nel 1527, di un sinodo-pilota nella via delle riforme, dell’esistenza di fornite biblioteche parrocchiali, di canonici colti e preparati, di donne in grado di interpretare in pieno il nuovo modello di religiosa di fine Settecento, di ordini religiosi che non sono da meno nella proposizione di nuovi modelli di santità. Nella ricomposizione di vecchio e nuovo si delinea una realtà diocesana estremamente sfaccettata, in un lento ma costante movimento, cui contribuì non poco la presenza di un vescovo quale Alfonso Maria de Liguori, una realtà capace di appropriarsi delle istanze pastorali e devozionali provenienti dal centro, adattandole alle proprie esigenze ed alle proprie tradizioni, ma non per questo meno vitali di tante altre vissute al di fuori dell’ “immobile” Mezzogiorno.
Centralismo romano e “policentrismo” periferico. Chiesa e religiosità nella Diocesi di Sant’Alfonso Maria de Liguori (secoli XVI-XVIII) / Campanelli, Marcella. - STAMPA. - (2003).
Centralismo romano e “policentrismo” periferico. Chiesa e religiosità nella Diocesi di Sant’Alfonso Maria de Liguori (secoli XVI-XVIII)
CAMPANELLI, MARCELLA
2003
Abstract
L’azione della Chiesa tridentina viene indagata in una diocesi della periferia meridionale non solo, e non tanto, attraverso l’attività dei suoi vescovi, spesso incompresi, impegnati a contrastare un forte potere feudale, a districarsi nel groviglio delle giurisdizioni, dei privilegi e delle immunità, ma anche dal punto di vista di quanti, sia laici che ecclesiastici, erano obbligati a confrontarsi con le normative provenienti da Roma. Le risposte fornite dai fedeli sul piano devozionale, i modelli di santità da essi proposti, i patronati, il mondo claustrale femminile, la stessa cultura del clero sono parsi altrettanti osservatori privilegiati per misurare i modi e i tempi di ricezione del messaggio ufficiale della Chiesa. Quanto di ciò che nei secoli era stato veicolato dalle istituzioni ecclesiastiche era diventato parte integrante del tessuto sociale? Quanto forti erano state le resistenze opposte dai fedeli e dal clero stesso, ancorati a comportamenti sedimentati nel tempo? In quale misura la pluralità delle forze attive in periferia era riuscita a frenare in materia di comportamenti religiosi e cultuali la tendenza centrifuga romana? Nel cercare di rispondere a queste domande, sullo sfondo di una diocesi a prima vista recalcitrante di fronte alle novità, arroccata nelle sue consuetudini, si presentano davanti ai nostri occhi inaspettati guizzi di modernità. Ci accorgiamo della convocazione, nel 1527, di un sinodo-pilota nella via delle riforme, dell’esistenza di fornite biblioteche parrocchiali, di canonici colti e preparati, di donne in grado di interpretare in pieno il nuovo modello di religiosa di fine Settecento, di ordini religiosi che non sono da meno nella proposizione di nuovi modelli di santità. Nella ricomposizione di vecchio e nuovo si delinea una realtà diocesana estremamente sfaccettata, in un lento ma costante movimento, cui contribuì non poco la presenza di un vescovo quale Alfonso Maria de Liguori, una realtà capace di appropriarsi delle istanze pastorali e devozionali provenienti dal centro, adattandole alle proprie esigenze ed alle proprie tradizioni, ma non per questo meno vitali di tante altre vissute al di fuori dell’ “immobile” Mezzogiorno.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.