Abbiamo chiesto a 43 soggetti, tutti operatori sanitari del contesto napoletano (città e provincia), 27 medici e 16 infermieri, 28 uomini e 15 donne, di età compresa tra i 25 e i 64 anni e con vari anni di esercizio della professione alle spalle, nel 70% dei casi con una specializzazione: “Mi può raccontare una sua esperienza di malattia, partendo da dove vuole?” . Ciascuna intervista, realizzata nello studio del medico o nel posto di lavoro (ospedale) è stata registrata col permesso del soggetto e successivamente sbobinata fedelmente. L’evento che i soggetti hanno scelto di narrare è un intervento chirurgico (42%), un incidente (21%), una malattia cronica (19%), il restante 18% coliche renali, shock anafilattico per automedicazioni e infezioni. Il corpus testuale è stato sottoposto ad analisi categoriale assistita da un software (N.Vivo). Partendo dagli interessanti risultati qualitativi ottenuti, si è deciso di proseguire lavorando ad un questionario standardizzato utile per indagare la percezione emotiva e cognitiva della malattia. Si é ritenuto infatti che uno strumento quantitativo permettesse di confrontare le rappresentazioni di malattia di pazienti e operatori su più ampia scala, approfondendo vari aspetti. E’ stato dunque selezionato un questionario che indaga molte aree corrispondenti alle categorie e ai mondi lessicali risultati dalla nostra ricerca qualitativa: l’Illness Perception Questionnaire o IPQ-R (Moss-Morris, 2002), versione italiana (80 items). Hanno partecipato a questa seconda fase della ricerca 269 operatori sanitari con una età media di 40.32 anni (DS 9.35) e un range di 27 a 67 anni; si tratta di 134 medici e 135 infermieri; dei quali 56% uomini e 44% donne. Il contesto è Napoli e provincia Alla luce dei risultati ci pare di poter fare alcune brevi ma importanti considerazioni. I professionisti del processo salute-malattia attingono, per la loro rappresentazione di quello stesso processo, non solo alla cultura scientifica, ma anche a quella popolare e personale, come avevamo anticipato. Tuttavia non sempre appaiono consapevoli di questo: stupiti che ci si possa rivolgere a loro anche come ammalati, fanno riferimento a bisogni, sentimenti e convinzioni che spesso tendono a non vedere nei pazienti. Scoprono la necessità di ricevere rassicurazione e vicinanza proprio dal loro medico, il bisogno dell’ancorarsi a qualche persona conosciuta nelle strutture, scoprono i percorsi mentali che conducono al ruolo del fato e della colpa, e soprattutto cedono talvolta ad un senso di impotenza e fragilità, che li conduce ad una forte sfiducia nei mezzi della medicina e nelle proprie possibilità personali. Questi elementi contribuiscono a delineare un quadro complesso del ruolo del medico e del paramedico nella nostra società. E’ molto probabile che nella relazione con il paziente, dalla prima visita alla comunicazione della diagnosi in poi, anche questi elementi giochino un ruolo fondamentale, contribuendo a far emergere meccanismi di difesa che complicano il rapporto. Il paziente vorrebbe non solo un medico competente, ma anche un medico presente interamente come persona nel rapporto (Parrello, Osorio, 2009; GianI Osorio, Parrello, 2009): e invece accade spesso che il medico si senta profondamente minacciato dai bisogni del paziente e proprio da quel senso di fragilità e impotenza che l’altro vive, chiedendo contenimento e sostegno. Accade così che si rifugi nella freddezza, nel tecnicismo, nell’esercizio di un potere che infantilizza l’altro, nella restrizione di prospettiva al sintomo decontestualizzato, perché trattare uno stomaco pare psichicamente meno faticoso, nell’immediato, che trattare con la persona adulta che si è ammalata allo stomaco. In conclusione, riteniamo – insieme ormai a molti autori - che vada profondamente ripensata la formazione dei nostri operatori sanitari: piuttosto che imparare a distillare il proprio vissuto e i propri pensieri depurandoli alla luce della Scienza, il medico e l’infermiere dovrebbero essere indirizzati a integrare le varie parti della propria cultura, in maniera tale da non dover temere di riconoscere nell’altro, ammalato, molti aspetti di sé, perturbanti certo, ma umani, troppo umani, e dunque meglio gestibili se non negati o rimossi.
Cultura medica e rappresentazione della malattia / Parrello, Santa; Osorio, Maricela. - (2009). (Intervento presentato al convegno Le molteplici dimensioni della diagnosi: culture, sistemi, persone tenutosi a Università degli Studi Orientale, Napoli nel 10-11 ottobre 2009).
Cultura medica e rappresentazione della malattia
PARRELLO, SANTA;OSORIO, Maricela
2009
Abstract
Abbiamo chiesto a 43 soggetti, tutti operatori sanitari del contesto napoletano (città e provincia), 27 medici e 16 infermieri, 28 uomini e 15 donne, di età compresa tra i 25 e i 64 anni e con vari anni di esercizio della professione alle spalle, nel 70% dei casi con una specializzazione: “Mi può raccontare una sua esperienza di malattia, partendo da dove vuole?” . Ciascuna intervista, realizzata nello studio del medico o nel posto di lavoro (ospedale) è stata registrata col permesso del soggetto e successivamente sbobinata fedelmente. L’evento che i soggetti hanno scelto di narrare è un intervento chirurgico (42%), un incidente (21%), una malattia cronica (19%), il restante 18% coliche renali, shock anafilattico per automedicazioni e infezioni. Il corpus testuale è stato sottoposto ad analisi categoriale assistita da un software (N.Vivo). Partendo dagli interessanti risultati qualitativi ottenuti, si è deciso di proseguire lavorando ad un questionario standardizzato utile per indagare la percezione emotiva e cognitiva della malattia. Si é ritenuto infatti che uno strumento quantitativo permettesse di confrontare le rappresentazioni di malattia di pazienti e operatori su più ampia scala, approfondendo vari aspetti. E’ stato dunque selezionato un questionario che indaga molte aree corrispondenti alle categorie e ai mondi lessicali risultati dalla nostra ricerca qualitativa: l’Illness Perception Questionnaire o IPQ-R (Moss-Morris, 2002), versione italiana (80 items). Hanno partecipato a questa seconda fase della ricerca 269 operatori sanitari con una età media di 40.32 anni (DS 9.35) e un range di 27 a 67 anni; si tratta di 134 medici e 135 infermieri; dei quali 56% uomini e 44% donne. Il contesto è Napoli e provincia Alla luce dei risultati ci pare di poter fare alcune brevi ma importanti considerazioni. I professionisti del processo salute-malattia attingono, per la loro rappresentazione di quello stesso processo, non solo alla cultura scientifica, ma anche a quella popolare e personale, come avevamo anticipato. Tuttavia non sempre appaiono consapevoli di questo: stupiti che ci si possa rivolgere a loro anche come ammalati, fanno riferimento a bisogni, sentimenti e convinzioni che spesso tendono a non vedere nei pazienti. Scoprono la necessità di ricevere rassicurazione e vicinanza proprio dal loro medico, il bisogno dell’ancorarsi a qualche persona conosciuta nelle strutture, scoprono i percorsi mentali che conducono al ruolo del fato e della colpa, e soprattutto cedono talvolta ad un senso di impotenza e fragilità, che li conduce ad una forte sfiducia nei mezzi della medicina e nelle proprie possibilità personali. Questi elementi contribuiscono a delineare un quadro complesso del ruolo del medico e del paramedico nella nostra società. E’ molto probabile che nella relazione con il paziente, dalla prima visita alla comunicazione della diagnosi in poi, anche questi elementi giochino un ruolo fondamentale, contribuendo a far emergere meccanismi di difesa che complicano il rapporto. Il paziente vorrebbe non solo un medico competente, ma anche un medico presente interamente come persona nel rapporto (Parrello, Osorio, 2009; GianI Osorio, Parrello, 2009): e invece accade spesso che il medico si senta profondamente minacciato dai bisogni del paziente e proprio da quel senso di fragilità e impotenza che l’altro vive, chiedendo contenimento e sostegno. Accade così che si rifugi nella freddezza, nel tecnicismo, nell’esercizio di un potere che infantilizza l’altro, nella restrizione di prospettiva al sintomo decontestualizzato, perché trattare uno stomaco pare psichicamente meno faticoso, nell’immediato, che trattare con la persona adulta che si è ammalata allo stomaco. In conclusione, riteniamo – insieme ormai a molti autori - che vada profondamente ripensata la formazione dei nostri operatori sanitari: piuttosto che imparare a distillare il proprio vissuto e i propri pensieri depurandoli alla luce della Scienza, il medico e l’infermiere dovrebbero essere indirizzati a integrare le varie parti della propria cultura, in maniera tale da non dover temere di riconoscere nell’altro, ammalato, molti aspetti di sé, perturbanti certo, ma umani, troppo umani, e dunque meglio gestibili se non negati o rimossi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.