Carlo Gasparrini Nuovi racconti della città contemporanea Urbanistica 140/2009 ABSTRACT Le città reclamano dagli urbanisti la capacità di coniugare strategie, regole e progetti con intelligenza e concretezza ma anche con un ottimistico azzardo. Poche ma pertinenti visioni strategiche proiettate in una pratica del futuro; regole rigorose ma agili, capaci di stimolare le trasformazioni e non impedirle; una molteplicità diffusa di progetti sostenuti da queste regole e interpreti consapevoli delle trame dense di quelle visioni a cui dar forma nel tempo. Retoriche e pratiche finiscono invece per oscillare tra alcuni posizioni estreme. Da un lato, l’affermarsi del progetto architettonico muscolare, griffato e autoreferenziale, icona isolata e disperata della modernità mai realizzata nelle nostre città. Su un altro lato, l’esercizio snobistico del veto culturale di principio contro il tram nella città storica e l’ascensore high tech a ridosso del monumento, fino alle discussioni talvolta paradossali sulla legittimità dell’architettura contemporanea nei nostri centri storici e sull’opportunità di realizzare edifici pericolosamente alti in periferia. Di progetto della città contemporanea si parla sempre di meno, del suo paesaggio in evoluzione, delle relazioni fisiche e simboliche tra i suoi spazi e i suoi nuovi fruitori, della necessità di ragionare anche di disegno e composizione urbana oltre che di singoli oggetti più o meno belli o di addizioni quantitative tanto rassicuranti quanto insignificanti. Pechino, New York, Bilbao, Barcellona e Milano sono alcuni casi paradigmatici della difficile ricerca, anche nei media, di uno spazio di attenzione alla città. Nonostante alcuni giornalisti intelligenti abbiano tentato di convincerci che lo spettacolare grattacielo di OMA per la Central Chinese Television costruito a Pechino possa essere paragonato all’”arco di trionfo della nuova metropoli”, la distanza dalla città di questo come di altri analoghi oggetti costruiti in questi anni resta incolmabile. Il loro gigantismo solipsistico non costruisce nuove sintassi, non misura e scandisce distanze, non rafforza nodi cruciali del disegno urbano, non definisce spazi di cui appropriarsi. L’esaltazione elogiativa della nuova monumentalità urbana di Pechino ha accompagnato anche la consacrazione dello stadio olimpico di Herzog & De Meuron come nuovo simbolo architettonico di Pechino. E’ singolare però che, in questo caso, gli stessi giornalisti siano stati cioè assai poco interessati al fatto che lo stadio fosse un riferimento architettonico importante di una direttrice urbana nord-sud che disegna l’intero Olympic District culminando nei quasi 700 ettari del Forest Park, il più grande della città. E abbiano così tralasciato di farci sapere che questa gigantesca operazione si è misurata con il prolungamento ideale della storica direttrice nord-sud che attraversa assialmente la “Città proibita”, misurandosi così con uno dei principi insediativi, simbolici e magici più importanti della cultura cinese. Anche la città di New York non fa notizia per noi europei quando si abbandona il terreno della competizione estetica dei nuovi grattacieli. Eppure la vicenda delle Twin Tower va ricordata non solo per il drammatico motivo al quale siamo abituati dal 2001. Chi ha seguito le vicende che sono dietro i tradizionali racconti dello spettacolo catastrofico, delle vittime senza nome, delle retoriche presidenziali e così via, sa che New York è profondamente cambiata proprio sul piano della condivisione collettiva delle scelte urbane. Il dibattito sui modi della ricostruzione, il concorso di progettazione su Ground Zero, la definizione di “Principi” discussi collettivamente, sono un patrimonio di idee e di pratiche che impressiona. Dopo il 2001, New York ha saputo dare una dimostrazione di come si possa provare a rigenerare l’intera Lower Manhattan affermando l’esigenza di un racconto condiviso e lavorando su una mixité più ricca legata anche al turismo, alla cultura, all’arte e al tempo libero, su un nuovo sistema di relazioni urbane, sui principi della sostenibilità che debbono guidare il ridisegno urbano. I risultati dunque non vanno misurati solo e tanto sulla qualità dei nuovi grattacieli ma anche e soprattutto sul senso e la portata di altre operazioni contestuali a quelle di maggiore visibilità mediatica come, ad esempio, la riconquista del rapporto col fiume Hudson di cui il parco dell’East River Waterfront costituisce l’esempio più significativo. D’altro canto, già qualche anno fa, il progetto di Frank Gehry per il museo Guggenheim di Bilbao aveva sicuramente rappresentato il paradigma della capacità dell’architettura di sovrastare e annullare i circuiti comunicativi relativi alla conoscenza di processi ampi e complessi di trasformazione urbana in cui l’opera matura e prende forma. In questo caso, l’Ajuntamiento era alle prese con un fiume separato dalla città perché soffocato da un complesso pervasivo di aree industriali abbandonate. Non è stato un percorso lineare e sequenziale quello che ha portato dal piano strategico al progetto di architettura, alla “nuova cattedrale” cioè come simbolo di questo rinascimento. Ma sicuramente la relazione fertile che si è determinata tra una progettualità complessiva per la città e i singoli interventi di qualità è stato un fattore determinante dell’“effetto Bilbao”. La progettata autostrada urbana lungo la Ria, pur non realizzata nelle sue intenzioni originarie, ha rappresentato comunque un potente strumento di ricomposizione urbana tra le due sponde del fiume e ha partecipato alla riconfigurazione della rete infrastrutturale intercettando le nuove centralità. L’operazione Forum Esplanade di Barcellona tenta di ripensare l’arrivo sulla linea di costa della Diagonal Mar in uno spazio difficile in cui fare convivere, anche verticalmente, le grandi infrastrutture tecnologiche presenti e i nuovi spazi fieristici, espositivi e congressuali. Pur riconoscendo la grande importanza per il consolidamento del waterfront, la sensazione è tuttavia quella del parco tematico, disperdendo una grande tradizione del progetto urbano in quella città capace di esprimere un’architettura e un’urbanistica per i cittadini. Tutto ciò per dare spazio ad una cultura della trasformazione “per edifici singolari”, oggetti di design dichiaratamente eccessivi destinati, proprio per questo, a divenire insignificanti. Tuttavia l’interessante e plurale sperimentazione degli spazi aperti del fronte-mare lascia comunque intravedere una prospettiva di ricomposizione urbana. In questo quadro è difficile parlare delle nostre città italiane. A Milano, l’operazione “Citylife” della ex Fiera sembra avere caratteri ancor più esasperati di recinto e vetrina di oggetti di design, nonostante la sbandierata idea di un presunto “iperluogo” affidato alla forza d’immagine sempre attuale delle torri, “da S. Gimignano a New York”. La buona pratica del disegno urbano scompare nel progetto vincitore del concorso che ha guidato la trasformazione, a differenza di quanto proposto da quello di Renzo Piano ingiustamente sconfitto. A differenza di Barcellona, la città da tempo non discute e metabolizza idee di città e nuovi racconti urbani assieme alla sperimentazione di progetti puntuali. Questo rende molto più difficile l’interazione virtuosa tra la indiscutibile necessità di strategie e visioni urbane e la qualità dei singoli tasselli, gravati oggi da aspettative immobiliari sovradimensionate e cresciuti in assenza di prospettive progettuali complessive per la città. Bisogna allora rinnovare il nostro modo di interpretare la città contemporanea attraverso convergenze disciplinari più ricche e dense rispetto al passato. Guardando ad esempio con maggiore interesse alle aree di sovrapposizione e contaminazione con altre discipline contigue e dentro percorsi di ricerca non ortodossi che possano portare linfa vitale alla tradizione urbanistica: dalla landscape architecture alla landscape ecology e ad alcuni settori delle scienze della terra e della progettazione infrastrutturale, in grado di arricchire la stanca discussione sul progetto urbano. Guardando quindi, più complessivamente, a quei percorsi di ricerca legati alle trasformazioni del paesaggio indotte dalle reti infrastrutturali, ambientali ed energetiche che hanno saputo sviluppare traiettorie interpretative e progettuali molto fertili. A quel landscape urbanism che lavora proprio lungo le aree di contatto e osmosi più interessanti della nuova multidisciplinarietà dell’urban design.
Nuovi racconti della città contemporanea / Gasparrini, Carlo. - In: URBANISTICA. - ISSN 0042-1022. - STAMPA. - (2009), pp. 52-59.
Nuovi racconti della città contemporanea
GASPARRINI, CARLO
2009
Abstract
Carlo Gasparrini Nuovi racconti della città contemporanea Urbanistica 140/2009 ABSTRACT Le città reclamano dagli urbanisti la capacità di coniugare strategie, regole e progetti con intelligenza e concretezza ma anche con un ottimistico azzardo. Poche ma pertinenti visioni strategiche proiettate in una pratica del futuro; regole rigorose ma agili, capaci di stimolare le trasformazioni e non impedirle; una molteplicità diffusa di progetti sostenuti da queste regole e interpreti consapevoli delle trame dense di quelle visioni a cui dar forma nel tempo. Retoriche e pratiche finiscono invece per oscillare tra alcuni posizioni estreme. Da un lato, l’affermarsi del progetto architettonico muscolare, griffato e autoreferenziale, icona isolata e disperata della modernità mai realizzata nelle nostre città. Su un altro lato, l’esercizio snobistico del veto culturale di principio contro il tram nella città storica e l’ascensore high tech a ridosso del monumento, fino alle discussioni talvolta paradossali sulla legittimità dell’architettura contemporanea nei nostri centri storici e sull’opportunità di realizzare edifici pericolosamente alti in periferia. Di progetto della città contemporanea si parla sempre di meno, del suo paesaggio in evoluzione, delle relazioni fisiche e simboliche tra i suoi spazi e i suoi nuovi fruitori, della necessità di ragionare anche di disegno e composizione urbana oltre che di singoli oggetti più o meno belli o di addizioni quantitative tanto rassicuranti quanto insignificanti. Pechino, New York, Bilbao, Barcellona e Milano sono alcuni casi paradigmatici della difficile ricerca, anche nei media, di uno spazio di attenzione alla città. Nonostante alcuni giornalisti intelligenti abbiano tentato di convincerci che lo spettacolare grattacielo di OMA per la Central Chinese Television costruito a Pechino possa essere paragonato all’”arco di trionfo della nuova metropoli”, la distanza dalla città di questo come di altri analoghi oggetti costruiti in questi anni resta incolmabile. Il loro gigantismo solipsistico non costruisce nuove sintassi, non misura e scandisce distanze, non rafforza nodi cruciali del disegno urbano, non definisce spazi di cui appropriarsi. L’esaltazione elogiativa della nuova monumentalità urbana di Pechino ha accompagnato anche la consacrazione dello stadio olimpico di Herzog & De Meuron come nuovo simbolo architettonico di Pechino. E’ singolare però che, in questo caso, gli stessi giornalisti siano stati cioè assai poco interessati al fatto che lo stadio fosse un riferimento architettonico importante di una direttrice urbana nord-sud che disegna l’intero Olympic District culminando nei quasi 700 ettari del Forest Park, il più grande della città. E abbiano così tralasciato di farci sapere che questa gigantesca operazione si è misurata con il prolungamento ideale della storica direttrice nord-sud che attraversa assialmente la “Città proibita”, misurandosi così con uno dei principi insediativi, simbolici e magici più importanti della cultura cinese. Anche la città di New York non fa notizia per noi europei quando si abbandona il terreno della competizione estetica dei nuovi grattacieli. Eppure la vicenda delle Twin Tower va ricordata non solo per il drammatico motivo al quale siamo abituati dal 2001. Chi ha seguito le vicende che sono dietro i tradizionali racconti dello spettacolo catastrofico, delle vittime senza nome, delle retoriche presidenziali e così via, sa che New York è profondamente cambiata proprio sul piano della condivisione collettiva delle scelte urbane. Il dibattito sui modi della ricostruzione, il concorso di progettazione su Ground Zero, la definizione di “Principi” discussi collettivamente, sono un patrimonio di idee e di pratiche che impressiona. Dopo il 2001, New York ha saputo dare una dimostrazione di come si possa provare a rigenerare l’intera Lower Manhattan affermando l’esigenza di un racconto condiviso e lavorando su una mixité più ricca legata anche al turismo, alla cultura, all’arte e al tempo libero, su un nuovo sistema di relazioni urbane, sui principi della sostenibilità che debbono guidare il ridisegno urbano. I risultati dunque non vanno misurati solo e tanto sulla qualità dei nuovi grattacieli ma anche e soprattutto sul senso e la portata di altre operazioni contestuali a quelle di maggiore visibilità mediatica come, ad esempio, la riconquista del rapporto col fiume Hudson di cui il parco dell’East River Waterfront costituisce l’esempio più significativo. D’altro canto, già qualche anno fa, il progetto di Frank Gehry per il museo Guggenheim di Bilbao aveva sicuramente rappresentato il paradigma della capacità dell’architettura di sovrastare e annullare i circuiti comunicativi relativi alla conoscenza di processi ampi e complessi di trasformazione urbana in cui l’opera matura e prende forma. In questo caso, l’Ajuntamiento era alle prese con un fiume separato dalla città perché soffocato da un complesso pervasivo di aree industriali abbandonate. Non è stato un percorso lineare e sequenziale quello che ha portato dal piano strategico al progetto di architettura, alla “nuova cattedrale” cioè come simbolo di questo rinascimento. Ma sicuramente la relazione fertile che si è determinata tra una progettualità complessiva per la città e i singoli interventi di qualità è stato un fattore determinante dell’“effetto Bilbao”. La progettata autostrada urbana lungo la Ria, pur non realizzata nelle sue intenzioni originarie, ha rappresentato comunque un potente strumento di ricomposizione urbana tra le due sponde del fiume e ha partecipato alla riconfigurazione della rete infrastrutturale intercettando le nuove centralità. L’operazione Forum Esplanade di Barcellona tenta di ripensare l’arrivo sulla linea di costa della Diagonal Mar in uno spazio difficile in cui fare convivere, anche verticalmente, le grandi infrastrutture tecnologiche presenti e i nuovi spazi fieristici, espositivi e congressuali. Pur riconoscendo la grande importanza per il consolidamento del waterfront, la sensazione è tuttavia quella del parco tematico, disperdendo una grande tradizione del progetto urbano in quella città capace di esprimere un’architettura e un’urbanistica per i cittadini. Tutto ciò per dare spazio ad una cultura della trasformazione “per edifici singolari”, oggetti di design dichiaratamente eccessivi destinati, proprio per questo, a divenire insignificanti. Tuttavia l’interessante e plurale sperimentazione degli spazi aperti del fronte-mare lascia comunque intravedere una prospettiva di ricomposizione urbana. In questo quadro è difficile parlare delle nostre città italiane. A Milano, l’operazione “Citylife” della ex Fiera sembra avere caratteri ancor più esasperati di recinto e vetrina di oggetti di design, nonostante la sbandierata idea di un presunto “iperluogo” affidato alla forza d’immagine sempre attuale delle torri, “da S. Gimignano a New York”. La buona pratica del disegno urbano scompare nel progetto vincitore del concorso che ha guidato la trasformazione, a differenza di quanto proposto da quello di Renzo Piano ingiustamente sconfitto. A differenza di Barcellona, la città da tempo non discute e metabolizza idee di città e nuovi racconti urbani assieme alla sperimentazione di progetti puntuali. Questo rende molto più difficile l’interazione virtuosa tra la indiscutibile necessità di strategie e visioni urbane e la qualità dei singoli tasselli, gravati oggi da aspettative immobiliari sovradimensionate e cresciuti in assenza di prospettive progettuali complessive per la città. Bisogna allora rinnovare il nostro modo di interpretare la città contemporanea attraverso convergenze disciplinari più ricche e dense rispetto al passato. Guardando ad esempio con maggiore interesse alle aree di sovrapposizione e contaminazione con altre discipline contigue e dentro percorsi di ricerca non ortodossi che possano portare linfa vitale alla tradizione urbanistica: dalla landscape architecture alla landscape ecology e ad alcuni settori delle scienze della terra e della progettazione infrastrutturale, in grado di arricchire la stanca discussione sul progetto urbano. Guardando quindi, più complessivamente, a quei percorsi di ricerca legati alle trasformazioni del paesaggio indotte dalle reti infrastrutturali, ambientali ed energetiche che hanno saputo sviluppare traiettorie interpretative e progettuali molto fertili. A quel landscape urbanism che lavora proprio lungo le aree di contatto e osmosi più interessanti della nuova multidisciplinarietà dell’urban design.File | Dimensione | Formato | |
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