L’immagine dei giardini di Armida è nella “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, “solitario tra gli uomini e i boschi” (Goethe). Nietzsche la riprende per dire de “la settima solitudine”, quella del filosofo, la più alta, la solitudine azzurra, la stessa del dialogo del viandante. L’immagine dei giardini rappresenta l’oblio del sé nella “sfera cangiante di opinioni”, dove l’identità diventa incerta, e ogni discorso si perde nelle voci delle parole. La solitudine è un sentimento. Non è l’essere isolati. La solitudine richiama una geografia interiore, senza territorio. È un sentire. Pieno. Spesso. Intenso. Come il “solido nulla” di Leopardi. Siamo soli di pensieri. La solitudine è l’esperienza dell’infinito piuttosto che della finitezza. Ed è il sentimento più proprio del filosofo che si aggira tra le idee come in un giardino che gli restituisce, insieme all’ordine e alla bellezza, la fragilità e la precarietà dell’esistenza. Platone parla dei “giardini di Adone”, che rappresentano la scrittura, lo scrivere sull’acqua, effimero, vacuo, tale da far perdere la memoria del ritornare a vivere, dell’anamnesi. Una memoria, quella platonica, che è della vita più che del sé. Saranno poi i “giardini cartesiani” di Versailles a ordinare una memoria metodica dell’Io. La Hyle di Husserl, la selva, il bosco, il legno, la materia del vivente faranno di nuovo disperdere e ritrovare l’io ogni volta. Il giardino fu invece uno “steccato” per Kierkegaard, mentre Kant aveva parlato della Critica come di un “giardinaggio delle idee" per trascendere di là, senza allontanarsi da qua, per dire delle idee senza lasciare l’esperienza cui applicarle e ritrovarle in traccia. Il libro attraversa la metafora del “giardino” seguendo Platone, Kierkegaard, Husserl, Nietzsche, in una sequenza che non è storica, perché “improcessabile”. Un continuo d’”a capo”, di nuovo. Nella solitudine si arriva e si ricomincia a essere. Si è tutt’uno con nulla. Si è in un "né questo", "né quello", "non qui", "non hic", "nihil", "non illud", "nulla". Il mondo è solo e tutt’insieme. Nietzsche lo chiamò “circulus vitiosus deus”, un circolo, un vizio, un dio. Solo. Com’è ogni io è uguale e differente a tutti gli altri. Con Nietzsche la solitudine viene dall’amico, dagli amici. Viene dal ricordo. I ricordi talvolta fanno perdere la memoria. Il problema non come uscire dalla metafisica della solitudine, ma piuttosto come starci, come stare al mondo, sapendo che il mondo è solo quando è senza vita o quando della vita ha solo il ricordo senza mantenerlo, senza perciò viverlo. La solitudine fa sentire i legami allo stato puro ed è ancora un’etica dei legami, la disciplina del Sé, che è chiamata a rappresentare l’urgenza di una filosofia dell’educazione al mondo della vita.
I giardini di Armidao della solitudine del filosofo / Ferraro, Giuseppe. - STAMPA. - (2012).
I giardini di Armidao della solitudine del filosofo
FERRARO, GIUSEPPE
2012
Abstract
L’immagine dei giardini di Armida è nella “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, “solitario tra gli uomini e i boschi” (Goethe). Nietzsche la riprende per dire de “la settima solitudine”, quella del filosofo, la più alta, la solitudine azzurra, la stessa del dialogo del viandante. L’immagine dei giardini rappresenta l’oblio del sé nella “sfera cangiante di opinioni”, dove l’identità diventa incerta, e ogni discorso si perde nelle voci delle parole. La solitudine è un sentimento. Non è l’essere isolati. La solitudine richiama una geografia interiore, senza territorio. È un sentire. Pieno. Spesso. Intenso. Come il “solido nulla” di Leopardi. Siamo soli di pensieri. La solitudine è l’esperienza dell’infinito piuttosto che della finitezza. Ed è il sentimento più proprio del filosofo che si aggira tra le idee come in un giardino che gli restituisce, insieme all’ordine e alla bellezza, la fragilità e la precarietà dell’esistenza. Platone parla dei “giardini di Adone”, che rappresentano la scrittura, lo scrivere sull’acqua, effimero, vacuo, tale da far perdere la memoria del ritornare a vivere, dell’anamnesi. Una memoria, quella platonica, che è della vita più che del sé. Saranno poi i “giardini cartesiani” di Versailles a ordinare una memoria metodica dell’Io. La Hyle di Husserl, la selva, il bosco, il legno, la materia del vivente faranno di nuovo disperdere e ritrovare l’io ogni volta. Il giardino fu invece uno “steccato” per Kierkegaard, mentre Kant aveva parlato della Critica come di un “giardinaggio delle idee" per trascendere di là, senza allontanarsi da qua, per dire delle idee senza lasciare l’esperienza cui applicarle e ritrovarle in traccia. Il libro attraversa la metafora del “giardino” seguendo Platone, Kierkegaard, Husserl, Nietzsche, in una sequenza che non è storica, perché “improcessabile”. Un continuo d’”a capo”, di nuovo. Nella solitudine si arriva e si ricomincia a essere. Si è tutt’uno con nulla. Si è in un "né questo", "né quello", "non qui", "non hic", "nihil", "non illud", "nulla". Il mondo è solo e tutt’insieme. Nietzsche lo chiamò “circulus vitiosus deus”, un circolo, un vizio, un dio. Solo. Com’è ogni io è uguale e differente a tutti gli altri. Con Nietzsche la solitudine viene dall’amico, dagli amici. Viene dal ricordo. I ricordi talvolta fanno perdere la memoria. Il problema non come uscire dalla metafisica della solitudine, ma piuttosto come starci, come stare al mondo, sapendo che il mondo è solo quando è senza vita o quando della vita ha solo il ricordo senza mantenerlo, senza perciò viverlo. La solitudine fa sentire i legami allo stato puro ed è ancora un’etica dei legami, la disciplina del Sé, che è chiamata a rappresentare l’urgenza di una filosofia dell’educazione al mondo della vita.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Abstract Giardini.docx
non disponibili
Tipologia:
Abstract
Licenza:
Accesso privato/ristretto
Dimensione
112.96 kB
Formato
Microsoft Word XML
|
112.96 kB | Microsoft Word XML | Visualizza/Apri Richiedi una copia |
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.