Zanobi Acciaioli nella sua Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae celebra sul filo di una memoria ampiamente stratificata un territorio dall’identità culturale millenaria e dal carattere emblematico, già ben definito sin dall’antichità nella sua eccellenza, ritessendo e risemantizzando quella complessa, lunga e tenace tradizione mitologica e letteraria che era stata costruita intorno alla città di Napoli, al suo Regno e ai suoi cives. Testo dalle molteplici dimensioni compositive, l’orazione pronunciata da Zanobi nel corso del Capitolo generale dell’Ordine domenicano tenutosi a Napoli, il 3 giugno 1515, va senz’altro interpretata come una manifestazione autorappresentativa del senso di appartenenza all’ordine da parte del suo autore; ma, poi, in quanto elogio della cittadinanza e della città di Napoli può esser letta anche in funzione del suo straordinario impianto retorico e dei suoi risvolti ideologici col supporto di altre chiavi di interpretazione. Ad esempio, la tessitura narrativa dell’orazione propone una lettura diacronica documentatissima del territorio, strutturandone una storia che dalla colonizzazione greca e dai fasti di epoca romana passa alla costituzione del regno in epoca normanna, per poi approdare ad una celebrazione del breve regno dei Trastámara come età straordinaria, novella età dell’oro. Celebrazione che non cela uno struggente rimpianto per essa – rimpianto sincero, non vuota cortigianeria dovuta alla presenza del cardinale Luigi d’Aragona, illustre discendente dei sovrani aragonesi – ma che si adatta anche alla topica celebrazione del rinnovato dominio spagnolo su Napoli nelle mani di Ferdinando il Cattolico. All’interno di questa storia le molteplici allusioni alla famiglia Acciaioli e ai suoi legami con Napoli e con il Regno trasformano l’oratio in un personale omaggio dell’autore ad una città che aveva avuto un ruolo di rilievo nella storia dei propri antenati, costituendo una tappa prestigiosa della sua ascesa al potere. L’oratore, poi, non manca di dare un rinnovato risalto alla dimensione sacra di questo territorio, rievocando i prodigi legati a santi assurti a potenti patroni, S. Gennaro, S. Pietro, S. Andrea, S. Bartolomeo, S. Benedetto, S. Tommaso d’Aquino, e ai luoghi toccati da loro passaggi e arricchiti da loro reliquie, luoghi che si tingono di sangue, di manna, di miracolosi liquori. La sacralità del territorio si riverbera, poi, nella magnificentia del patrimonio urbanistico, segnato da palazzi grandiosi, ma soprattutto da chiese sontuose, nate spesso come 8 Premessa veri e propri ex-voto, segnacoli della pietà e della speciale devozione dei Napoletani. Senza dubbio, inoltre, per il suo focalizzarsi ora sulla città di Napoli, ora su tutto il territorio del regno, l’orazione finisce per trasformarsi in itinerarium, in mappa letteraria, in cui geografia e letteratura si intersecano, immaginario mitico e tradizione culturale si connettono, delineando per il lettore uno spazio unico che alla dimensione fisica affianca una dimensione intellettuale potente e suggestiva, per cui il paesaggio da realtà materiale si trasfigura in memoria immateriale. La parola letteraria, che qui con l’efficacia di una stringente orditura retorica è capace di produrre emozione e risuscitare la bellezza insieme antica e attuale di un territorio prediletto da Dio e da lui destinato ai sapientes, si pone nel solco di una tradizione culturale prestigiosa, che già la precedente generazione di umanisti attivi a Napoli aveva saputo risemantizzare con cura, rinnovandola in funzione della propria identità civile e culturale. La Schola Neapolitana di Giovanni Pontano, maestro riconosciuto dell’Umanesimo aragonese, aveva infatti rifondato in senso ideologico il mito della ktisis di Napoli, utilizzandolo come potente metafora della vocazione sapienziale di Napoli-Parthenope. Al mito di fondazione il Pontano e il suo entourage avevano poi affiancato una nuova rappresentazione del Crater delle Sirene, trasfigurandolo nel golfo mistico abitato da Proteo, dio profetico, e facendone luogo di nuove epifanie, centro pulsante di un territorio dotato di una potente identità culturale, spazio vocato ad un otium millenario, abitato da eroi antichi, del mito e della storia, come Ulisse, Cicerone, Virgilio, Stazio, ma anche da nuovi eroi, come i principi Trastámara e gli intellettuali attivi a vario titolo al loro fianco. Ed è chiaro allora che – come mostrano le citazioni esplicite piene di ammirazione nei confronti del Pontano – il frate domenicano ripropone volutamente la trasfigurazione di Napoli e del Regno in nuova Atene e in una nuova Grecia già operata dalla Schola Neapolitana, impossessandosi con stretta osservanza del potente apparato di nuovi miti inventati dall’esuberante creatività del Pontano, miti che negli stessi anni in cui Zanobi operava tra Roma e Napoli, la generazione di intellettuali post-pontaniani (Jacopo Sannazaro, Giano e Cosmo Anisio, Pietro Gravina, per citarne solo alcuni) riproponeva, attualizzava, rinnovava seguendo la lezione del maestro.
Zanobi Acciaioli, ORATIO IN LAUDEM CIVITATIS NEAPOLITANAE. Edizione critica, traduzione e commento a cura di Antonietta Iacono / Iacono, Antonietta. - (2023), pp. 7-132.
Zanobi Acciaioli, ORATIO IN LAUDEM CIVITATIS NEAPOLITANAE. Edizione critica, traduzione e commento a cura di Antonietta Iacono
Antonietta Iacono
2023
Abstract
Zanobi Acciaioli nella sua Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae celebra sul filo di una memoria ampiamente stratificata un territorio dall’identità culturale millenaria e dal carattere emblematico, già ben definito sin dall’antichità nella sua eccellenza, ritessendo e risemantizzando quella complessa, lunga e tenace tradizione mitologica e letteraria che era stata costruita intorno alla città di Napoli, al suo Regno e ai suoi cives. Testo dalle molteplici dimensioni compositive, l’orazione pronunciata da Zanobi nel corso del Capitolo generale dell’Ordine domenicano tenutosi a Napoli, il 3 giugno 1515, va senz’altro interpretata come una manifestazione autorappresentativa del senso di appartenenza all’ordine da parte del suo autore; ma, poi, in quanto elogio della cittadinanza e della città di Napoli può esser letta anche in funzione del suo straordinario impianto retorico e dei suoi risvolti ideologici col supporto di altre chiavi di interpretazione. Ad esempio, la tessitura narrativa dell’orazione propone una lettura diacronica documentatissima del territorio, strutturandone una storia che dalla colonizzazione greca e dai fasti di epoca romana passa alla costituzione del regno in epoca normanna, per poi approdare ad una celebrazione del breve regno dei Trastámara come età straordinaria, novella età dell’oro. Celebrazione che non cela uno struggente rimpianto per essa – rimpianto sincero, non vuota cortigianeria dovuta alla presenza del cardinale Luigi d’Aragona, illustre discendente dei sovrani aragonesi – ma che si adatta anche alla topica celebrazione del rinnovato dominio spagnolo su Napoli nelle mani di Ferdinando il Cattolico. All’interno di questa storia le molteplici allusioni alla famiglia Acciaioli e ai suoi legami con Napoli e con il Regno trasformano l’oratio in un personale omaggio dell’autore ad una città che aveva avuto un ruolo di rilievo nella storia dei propri antenati, costituendo una tappa prestigiosa della sua ascesa al potere. L’oratore, poi, non manca di dare un rinnovato risalto alla dimensione sacra di questo territorio, rievocando i prodigi legati a santi assurti a potenti patroni, S. Gennaro, S. Pietro, S. Andrea, S. Bartolomeo, S. Benedetto, S. Tommaso d’Aquino, e ai luoghi toccati da loro passaggi e arricchiti da loro reliquie, luoghi che si tingono di sangue, di manna, di miracolosi liquori. La sacralità del territorio si riverbera, poi, nella magnificentia del patrimonio urbanistico, segnato da palazzi grandiosi, ma soprattutto da chiese sontuose, nate spesso come 8 Premessa veri e propri ex-voto, segnacoli della pietà e della speciale devozione dei Napoletani. Senza dubbio, inoltre, per il suo focalizzarsi ora sulla città di Napoli, ora su tutto il territorio del regno, l’orazione finisce per trasformarsi in itinerarium, in mappa letteraria, in cui geografia e letteratura si intersecano, immaginario mitico e tradizione culturale si connettono, delineando per il lettore uno spazio unico che alla dimensione fisica affianca una dimensione intellettuale potente e suggestiva, per cui il paesaggio da realtà materiale si trasfigura in memoria immateriale. La parola letteraria, che qui con l’efficacia di una stringente orditura retorica è capace di produrre emozione e risuscitare la bellezza insieme antica e attuale di un territorio prediletto da Dio e da lui destinato ai sapientes, si pone nel solco di una tradizione culturale prestigiosa, che già la precedente generazione di umanisti attivi a Napoli aveva saputo risemantizzare con cura, rinnovandola in funzione della propria identità civile e culturale. La Schola Neapolitana di Giovanni Pontano, maestro riconosciuto dell’Umanesimo aragonese, aveva infatti rifondato in senso ideologico il mito della ktisis di Napoli, utilizzandolo come potente metafora della vocazione sapienziale di Napoli-Parthenope. Al mito di fondazione il Pontano e il suo entourage avevano poi affiancato una nuova rappresentazione del Crater delle Sirene, trasfigurandolo nel golfo mistico abitato da Proteo, dio profetico, e facendone luogo di nuove epifanie, centro pulsante di un territorio dotato di una potente identità culturale, spazio vocato ad un otium millenario, abitato da eroi antichi, del mito e della storia, come Ulisse, Cicerone, Virgilio, Stazio, ma anche da nuovi eroi, come i principi Trastámara e gli intellettuali attivi a vario titolo al loro fianco. Ed è chiaro allora che – come mostrano le citazioni esplicite piene di ammirazione nei confronti del Pontano – il frate domenicano ripropone volutamente la trasfigurazione di Napoli e del Regno in nuova Atene e in una nuova Grecia già operata dalla Schola Neapolitana, impossessandosi con stretta osservanza del potente apparato di nuovi miti inventati dall’esuberante creatività del Pontano, miti che negli stessi anni in cui Zanobi operava tra Roma e Napoli, la generazione di intellettuali post-pontaniani (Jacopo Sannazaro, Giano e Cosmo Anisio, Pietro Gravina, per citarne solo alcuni) riproponeva, attualizzava, rinnovava seguendo la lezione del maestro.File | Dimensione | Formato | |
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