Buone prassi | |
“La riflessione educativa ai tempi della crisi”. L’agire educativo come progettualità di apprendimento condiviso per il futuro |
di Alessandra Romano |
Il saggio si propone di affrontare in un’ottica critica l’analisi dei bisogni e delle problematiche educative dei nuovi scenari sociali. Partendo da una diesamina dettagliata della decadenza dei garanti metapsichici sociali su cui si fondano le istituzioni, si esplicitano le rilevanze che la crisi dell’epoca postmoderna ha sul piano psichico e identitario. A tali vissuti di precarietà, insoddisfazione, incertezza, corrispondono spaventosi vuoti sul piano emotivo e relazionale, colmati da una spinta consumistica a mercificare le relazioni umane e gli affetti nel loro uso nel qui ed ora. Tuttavia, l’intento è anche quello di offrire una visione pedagogica cocostruzionista, in cui rilanciare nuovi modelli formativi per affrontare la crisi dall’interno dei sistemi educativi e accademici. Viene descritto, a tal proposito, un percorso laboratoriale esperienziale incentrato sulla metodologia dell’Action-learning svoltosi presso il Teachers College, Columbia University, metodologia riflessiva e proattiva, condivisa e situata, con cui lavorare per far fronte ai problemi della complessità in ogni contesto educativo, formale, informale e non-formale. Il workshop ha visto interessati 15 studenti del programma di Dottorato in Adult Learning & Leadership, ed è stato impostato come case-study che ha coinvolto anche istituzioni organizzative esterne al mondo accademico, a dimostrazione dell’importanza di creare legami e ponteggi tra organizzazioni e università, per rendere più fluidi i movimenti dinamici tra la formazione e l’ingresso nel mondo del lavoro. Inoltre, la necessità di agganciare i saperi teorici all’esperienza pratica diventa oggetto di riflessione e metacognizione condivisa, supervisionata dalla presenza di un coach per ogni gruppo di lavoro. Il contenitore dell’università, pertanto, facilita l’approccio metariflessivo ai problemi dei contesti sociali, ad ogni livello della metafora ecologica, incitando attraverso metodologie pratiche alla risoluzione creativa e innovativa delle criticità analizzate.
The paper aims to explore the analysis of the needs and of the educational troubles under a critical framework. Starting from a detailed examination of the decline of the social metapsychic guaranteeing on whom the institutions are based, it will be highlighted the relevance of the crisis of the postmodernity age on the psychic and identity development. To those feelings of precariety, unsatisfaction, uncertainty, it corresponds an awful emptiness on the emotional and relational level, filled out with a consumption push to commodify human relationships and affections in their use in the here-and-now. However, it would like to offer a co-constructivist pedagogical perspective, according to which proposing new training models to face the crisis from the within of the educational and academic systems. At this regard, it is described an experiential workshop, carried out at Teachers College, Columbia University, focused on the Action-learning, reflective and proactive, shared and situated methodology, with whom working to overcome the troubles of the complexity in each educational context, formal, informal and non-formal. The participants to the workshops are 15 students of the Doctoral program in Adult Learning & Leadership, and it the laboratory itself is set as a case-study, which involves also organizations outside the academic world, to demonstrate how much it is important to build links and bridges between university and organizations, also to make more fluid the dynamical movements from the training to the enter into the work world. Furthermore, the need of engaging the theoretical knowledge with the practice undergoes to a process of shared reflection and metacognition, under the supervision of a coach for each working-group. The university as protective container, at that point, facilitates the metariflective approach to the troubles of the social contexts, at each level of the ecological metaphor, inciting to find creative and innovative solutions to the issues through practical methodologies.
“… lo spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti”
1. L’Epoca del disincanto e del disamore educativo
La postmodernità ha fatto vacillare le credenze e l’insieme delle organizzazioni sociali che fondavano una relativa fiducia nella civiltà, nelle istituzioni, nei legami intersoggettivi e nelle sue capacità. Con l’ipermodernità si è in un centro di irradiazione nuovo, inedito, del malessere e della sofferenza psichica di origine sociale e culturale. Se le condizioni della mondializzazione sono differenti nei diversi spazi geopolitici del pianeta, si può ipotizzare che i loro effetti psichici e sociali siano legati ad alcune costanti antropologiche le cui espressioni non sono le stesse in Cina, in India, nell’America latina, in Africa, in Europa, nel Medio Oriente. I notevoli cambiamenti sopraggiunti in appena due decenni nei legami intergenerazionali, nelle relazioni tra i sessi (soprattutto nello statuto della donna), nelle metamorfosi delle strutture familiari, nelle mutazioni inedite nel rapporto con il lavoro e nella sua organizzazione, nei legami di sociabilità, nelle strutture dell’autorità e del potere, nel confronto violento con quella «terza differenza» che il mescolarsi delle culture provoca, tutte queste dimensioni chiamano in causa i processi di strutturazione degli spazi psichici e i fondamenti del sentimento di identità. Il mondo moderno, e ancor più il mondo ipermoderno, ci pongono a confronto con un insieme di violenti sconvolgimenti che colpiscono la base narcisistica del nostro essere. Il contratto intersoggettivo e intergenerazionale che attraverso la collettività e i gruppi di appartenenza garantisce l’investimento del nostro «posto in un insieme», e che obbliga a investirli per assicurarne la conservazione, è esso stesso messo in pericolo o fatto a pezzi. Di conseguenza, le credenze e i miti che assicuravano la base narcisistica della nostra appartenenza a un insieme sociale, sono anch’essi scossi, e nello stesso movimento, i «grandi racconti» che fornivano le matrici del senso comune e condivisibile di fronte agli enigmi della vita e dell’Universo non sono più sufficienti. Il gruppo si caratterizza come un’organizzazione meta in rapporto allo spazio intrapsichico del soggetto singolare. Una delle funzioni centrali dei quadri e dei metaquadri è di strutturare la vita sociale e la vita psichica, e di garantire le condizioni del loro sviluppo. L’idea centrale è che il malessere contemporaneo è il risultato di una destabilizzazione dei metaquadri sociali, essi stessi garanti dei metaquadri psichici fondatori e garanti della vita intrapsichica di ogni soggetto singolare. Questa fragilizzazione dei garanti meta colpisce la sofferenza psichica e i funzionamenti dei gruppi, delle famiglie e delle istituzioni. La postmodernità ha accentuato questa difficoltà d’essere generalizzata, facendo definitivamente prevalere l’informazione sul racconto, la coesistenza bruta dei contrari e il rifiuto di riferimenti privilegiati: tutto si equivale. Le società postmoderne vivono questi cedimenti e questi fallimenti come generatori di incertezza nei riferimenti identificatori di appartenenza, nelle marche simboliche, nella funzione e affidabilità delle istituzioni, nei sistemi meta-interpretativi. Questi riferimenti e questi sistemi sono ormai multipli, più o meno ibridati, apertamente o sordamente conflittuali. Essi non sono necessariamente e automaticamente i segni di una società nella quale vengono assunte le differenze. La vita psichica e il divenire un «Io» non possono svilupparsi che sulla base dell’esigenza di lavoro psichico che impone alla psiche la sua iscrizione nei legami intersoggettivi primari e in quelli sociali. Questa iscrizione si compie attraverso un insieme di contratti, di patti e di alleanze di natura e di obiettivi diversi. Il difetto, il cedimento o la disorganizzazione di questi contratti, patti e alleanze, mettono in crisi i garanti metapsichici (Kaës, 2014). Oggi il compito educativo è di reperire le loro incidenze sui legami intersoggettivi e sociali e sulle forme di soggettività che generano. Non basta dire che nelle società ipermoderne il legame è in crisi: è in crisi il legame degli individui con le diverse componenti della vita sociale e culturale, e al tempo stesso il legame tra gli individui. Le società ipermoderne sono implicate nei caos identitari e nei difetti di simbolizzazione che specificano il malessere contemporaneo. Viviamo nell’urgenza perché l’orizzonte temporale si è ristretto a causa di altre componenti della cultura dell’ipercontrollo, dell’indifferenziazione, dell’onnipotenza e della fascinazione dell’estremo. La cultura dell’urgenza e dell’immediatezza ha trasformato la temporalità nel mondo postmoderno. Il rapporto con il tempo privilegia l’incontro sincronico, nel qui ed ora: il tempo corto prevale sul tempo lungo, come lo zapping e il nomadismo sulla continuità. Il legame è mantenuto nell’attuale, sfugge alla storia perché la certezza che l’avvenire è indecidibile è la sola certezza. Questa cultura si manifesta nei rapporti che si intrattiene con i progetti. Un progetto presuppone l’iscrizione di un’azione concertata, nella quale è incluso un rischio e un’incertezza in un tempo a venire. Un progetto si può immaginare solo se si può non rifiutare il presente e pensare attivamente un rapporto col passato. Molti dei nostri progetti non sono progetti ma degli scenari di uscita dal marasma, nell’immaginario. La difficoltà di concepire e realizzare un progetto contribuisce alla disorganizzazione del pensiero suscitata dalla cultura dell’urgenza e della catastrofe. Infine, la sostituzione dei legami sociali e intersoggettivi con degli apparati burocratici, delle macchine e degli automi, si è imposta con il pensiero totalitario del neo-liberalismo economico. Tutte queste dimensioni congiunte della civiltà ipermoderna hanno distrutto la fiducia nell’umanità. Di contro, si sono istallate la paura, l’insicurezza, l’angoscia muta e la violenza. I sogni non riparano più i microtraumi della vita quotidiana e le fictions dei media non fanno che addormentarli. Si vive nell’impensabile e impensato di queste esperienze che sono seppellite col diniego, isolate con la scissione, ricoperte con le danze maniacali nelle discoteche. Questi resti da pensare, sono la precarietà e lo sconforto creati dagli esili, dai movimenti migratori, dall’esclusione, dalla disoccupazione, dagli sradicamenti. È l’incertezza sul presente, la sfiducia di fronte a trasmissioni che non generano avvenire, o al contrario l’esaltazione ottusa dei fondamentalismi, l’estrema e fragile dipendenza dagli oggetti tecnici, dalle urgenze, dai legami effimeri, che ostacolano la progettualità a venire. L’imperativo del cittadino postmoderno è quello di decostruire, sovvertire, demistificare tutti i tipi di codici dominanti, le autorità, le istituzioni, le norme e le convenzioni. I confini del Sé diventano fluidi e si disperde il senso tradizionale dei concetti: siamo lasciati soli con il gioco del linguaggio, che dissemina il significato allo stesso modo in cui disperde l’ego. Il postmodernismo presuppone che la realtà sia una costruzione sociale che si realizza a partire dall’interazione o dalla libera espressione dei soggetti. Ne consegue che l’essere umano resta prevalentemente svincolato da ideali collettivi e pertanto indotto a impegnarsi in azioni individuali come strumento di autorealizzazione. La cultura postmoderna incita alla performance e si alimenta di eccessi e platealità. Tutti gli eventi principali che in essa hanno luogo si consumano in una dimensione di teatralità, indipendentemente dalla connotazione talvolta drammatica degli stessi. Queste caratteristiche cupe della postmodernità melanconica e dell’ipermodernità maniacale sono gli effetti dei cambiamenti strutturali che hanno colpito il campo sociale e culturale. Esse hanno modificato l’organizzazione e il funzionamento dello spazio intrapsichico e i suoi rapporti con gli altri spazi della realtà psichica. La vita adulta è diventata più complessa e incerta al giorno d’oggi: non ci sono “curricula già pronti per l’apprendimento di competenze per la vita” (Glastra, Hake & Schedler, 2004, p. 300). Le persone fanno i loro piani e prendono decisioni su come costruire il loro personale programma, di lavoro e di vita pubblica; l’imprevedibilità è aumentata dalla pluralità di scelte, percorsi ed azioni che le persone possono intraprendere all’interno dei vari mondi della vita e per tutta la loro vita. Sicuramente l’erosione dei tradizionali modi della vita, la scomparsa di tradizionali script del corso di vita rendono più complesso questo percorso. Mentre questi fenomeni aumentano il livello di incertezza e l’emergere di continui dilemmi disorientanti, permettono agli adulti di sviluppare in modo unico il proprio corso di vita. Essi possono anche stimolare gli adulti a diventare più tolleranti verso l’ignoto, l’incerto e l’inatteso e più aperti verso nuovi modi di vedere, di interpretare, di agire e di essere. Vivere ed agire nella incertezza diventa una sorta di esperienza di base (Beck, Giddens e Lash, 1994, p. 12). Ciò influisce su e coinvolge il proprio senso di essere, di agire nel mondo e di interagire con gli altri. Molti studiosi hanno riconosciuto il ruolo degli aspetti contestuali (storici, sociali, culturali e situazionali), del gruppo e della comunità nel promuovere o ostacolare l’apprendimento degli adulti (Merriam, Caffarella & Baumgartner, 2007). Il lavoro educativo è l’occasione per accedere a questi impensati, per avviarne l’elaborazione, e per fare l’esperienza di essere anche i depositari di eredità collettive pensabili, pensate e generatrici di pensieri. La costruzione della realtà, la comunità, e le soluzioni ai problemi della comunità nascono da un coro, ovvero dall’incontro di molteplici voci. Il soggetto è portatore di significati, di costruzioni di senso, e lo spazio all’interno del quale l’individuo può arrivare ad essere quello che è non è un ambito meramente soggettivo: l’individuo si sostanzia in un ambito di significatività intersoggettiva a valenza fortemente culturale e sociale. C’è un bisogno umano urgente di comprendere e mettere ordine nei significati della nostra esperienza, per integrarli con quello che sappiamo evitando l’orlo del caos. Questo bisogno richiede un sistema percettivo-attivo che coinvolge la nostra attenzione all’interazione del qui-ed-ora con le nostre circostanze: quando si riesce a stare e a sostare nel qui-ed-ora, si inizia a sviluppare una capacità di mindfulness, di restare nel presente, che elicita le azioni da intraprendere, e diventa guida per come procedere, aprendosi alle esplorazione delle possibili alternative. Gli educatori, in questo, possono assistere i discenti riconoscendo esplicitamente il bisogno di una sicurezza ontologica, e dischiudendosi a questo, mostrandosi tolleranti della sicurezza ontologica, e normalizzando le esperienze liminali che sono parte integrante della trasformazione. Nominando questi stati transizionali si incoraggerebbero gli studenti a riconoscere e integrare piuttosto che a ripudiare e/o a rinnegare il senso di vuoto che avvertono. L’adultità può essere descritta come un’età di negoziazione di un insieme di richieste di ruoli complessi e compiti di vita che attraversano molteplici e sovrapposti domini di esperienza (professionali, familiari, e così via), per il quale non ci sono linee guida definitive. Gli adulti sono spesso confrontati regolarmente con il cambiamento e con il dispiegarsi di sfide e aspettative che non solo richiedono differenti azioni da quelle per cui si sentono competenti e pratici, ma che impongono anche nuova consapevolezza e creazione di significato, apprendendo, e sviluppandosi nella relazione di ciascuno con l’ambiente. Queste richieste tipiche dell’età adulta sono ora accoppiate con una nuova regola di una sempre crescente complessità, instabilità e ambiguità, nella quale ci ritroviamo nel ventunesimo secolo. Questo apprendimento non solo è indirizzato a quello che ciascuno sa, ma anche a come lui o lei lo sa, essenzialmente uno spostamento verso l’ordine di coscienza di ciascuno o delle cornici di riferimento. Gli adulti hanno la capacità e l’abilità di navigare attraverso le richieste dell’età adulta o almeno di imparare la strada per farlo. In effetti, in realtà, molti adulti non si trovano a combattere per gestire queste richieste di cambiamento e crescere in nuovi modi di conoscere, essere e agire. Tuttavia, in contesti di liquidità quali quelli attuali, per facilitare la trasformazione e lo sviluppo sono richiesti supporti, scaffolding, sfide appropriate per lo sviluppo e incoraggiamento alla crescita. La precarietà è la forma, postmoderna, dello sfruttamento. Inoltre la realtà, complessa e stratificata, con la quale dobbiamo entrare necessariamente in relazione, richiede un impegno ripetuto e sistematico a mettere in dubbio il proprio patrimonio conoscitivo, a migliorarlo in quantità e, soprattutto, in qualità, non dando nulla per scontato e per certo, ad allargarlo nella possibilità di offrirgli nuovi orizzonti conoscitivi di senso e di scoperta.
2. Il lavoro educativo della relazione
Se, come possiamo constatare, stiamo attraversando l’era del consumismo degli affetti, dove tutto è consumato e divorato nella logica schiacciante del momento, non c’è spazio per ogni sopito desiderio che possa sorgere da una mancanza o da un bisogno. In realtà sembra non esserci più la possibilità di tollerare il negativo e la mancanza, nelle ricadute formative ed educative che questi possano avere. Si può continuare a far finta che non esista il senso di vuoto che dilania la generazione, ormai iper-estesa, di giovani dai 18 ai 30 anni, che alla precarietà professionale non corrisponda un’angoscia disorientante e destrutturante, ma questa finzione ha portato al disinvestimento per la storicità del tempo «a-venire», e per ogni progettualità legata a questo: la competitività produttiva e consumistica, sempre più tecnologicamente supportate, trasformerebbero l’a-venire in un già a-venuto ancora da compiersi nella sua molteplicità, con il rischio di ridurre la capacità dell’azione trasformatrice del singolo, e, dunque, le potenzialità del suo percorso di formazione. Il futuro è morto laddove guardano tutti indietro, non davanti, come la Gradiva di Jensen, che finisce con il diventare il fantasma di se stessa. Occorre confrontarsi con un inaridimento diffuso del desiderio, che tocca la sfera dei legami, rarefatti e soggetti a forme di scambio utilitaristico, con il venire meno di un orizzonte progettuale da parte di una generazione adulta che mostra difficoltà a se-durre le nuove generazioni verso prospettive di possibili mondi altri. Sembra che alle categorie nosografiche dei Disturbi del Comportamento alimentare corrisponda una anoressia e una bulimia di sentimenti, tutta tesa a colmare o a controllare il vuoto e l’instabilità interiore ed esterna, per cui i sentimenti e gli affetti sono scollati dalle pratiche relazionali e queste sono agite in modalità compulsive proprio dai giovani. Probabilmente si è già nel pieno di un disturbo relazionale collettivo e condiviso, rispetto al quale si richiede di intervenire in ottica educativa e proattiva. L’esperienza di sé, corporea e psicologica, è ridotta alla mera esteriorità, dimentica delle proprie competenze, delle motivazioni, della consapevolezza emotiva e degli stati interiori. Le strutture metapsicologiche e intersoggettive (trascendentali, oserei chiedere?) che organizzano la nostra realtà, collassano perversamente nei media, accogliendo ciò che apparentemente è rifiutato dalle convenzioni ed è connesso al godimento sfrenato. Mentre prima l’individuo a causa del rispetto delle leggi della società era indotto a reprimere il piacere e il godimento, oggi lo spettatore è costretto a godere secondo i canoni del trash o del kitsch. Più che riproporre un certo antagonismo stereotipato, per cui è la società versus i giovani, sembra auspicabile un indirizzo trasformativo della formazione, che si esplica in quell’agire decostruttivo e ricostruttivo dell’immagine di Sé e dell’Altro, che consente di riconoscere all’individuo la sua dimensione originariamente relazionale e comunicativa, rendendo l’emozione stessa come tratto costitutivo dell’educabilità. Nella pedagogia della relazione, l’educazione coincide con una maieutica socratica di estrazione delle potenzialità insite nei soggetti. Nel quadro della società del disincanto sopra descritto sembra esservi un percorso già stabilito di formazione, in cui più che all’evoluzione e alla dinamica si punta agli esiti del processo formativo, che si ritiene compiuto solo nell’adeguamento dell’individuo al suo ruolo sociale e al sistema normativo attinente. Si può tratteggiare una umanità incrostata nei valori e negli ideali, che ha perso la capacità di incantarsi nel guardare al futuro, perché le speranze non sono sopravvissute al temibile esame di realtà. Quale progettualità educativa, quindi, pensare a partire dalla drammaticità di un presente (storico, sociale, politico) che rinnega la sua stessa storicità e si rifugia nello specchietto di allodole del qui e ora? L’intento del presente saggio non è quello di individuare un insegnamento didascalico a partire dalla morale di turno, ma portare avanti un invito alla riflessione. Il rischio che si corre in primis da un punto di vista umano è di essere affetti dalla malattia della sopravvivenza quotidiana, dal mal di vivere, e dal vivere male, perché non si è in grado di calarsi nel contesto in cui si vive, ci si rinchiude nell’illusorietà onnipotente della propria fantasia, dove tutto è accessibile e ogni bisogno è appagato. Per cui la realtà diventa un’alterità soffocante, frustrante, una madre-matrigna cattiva, che obbliga alla rinuncia ad ogni forma di soddisfazione e alla terribile frustrazione, che impone la temibile crescita verso l’adultità. La formazione è soggiogata ad esigenze cronometriche e a parametri rispetto ai quali sembra non vi sia tempo per la riflessione che vivifica l’apprendimento personale. Più che di una società della conoscenza e dell’informazione, dovremmo “parlare di una società dell’opinione diffusa che scalza continuamente sia una conoscenza autorevole frutto di studio e di ricerca e a cui occorrerebbe riferirsi quale mediatrice di civiltà, sia una corretta informazione indipendente dai centri di potere. […] Il rischio è quello di lasciare che le economia neoliberiste, sempre più slegate dal controllo e dalla regolamentazione dei governi, scelgano le linee di modificazione e di investimento nei sistemi educativi e di istruzione, sempre più orientati verso la mercantilizzazione dell’offerta formativa, la mercificazione dei prodotti ‘culturali’, e la considerazione dei destinatari come clienti/consumatori” (Schettini, 2010, pp. 13-14). La pedagogia delle relazioni, dell’incontro con ogni forma di alterità, del dialogo, della differenza e delle differenze potrebbe connotarsi come un’educazione sentimentale, in ogni contesto educativo, formale, non formale e informale, si colorirebbe di emozioni e motivazioni, ed educare alle emozioni si caratterizzerebbe come un architrave didattico e pedagogico. Una possibilità per fare i conti con le problematiche educative delle società delle Tecnologie della Comunicazione e dell’Informazione degli anni Duemila, è educare ai sentimenti della dignità dell’uomo e dell’umano, dello straordinario che è insito nell’ordinarietà quotidiana. Più che criticare l’amore ai tempi dei social network, proviamo a partire dal valore dell’uomo in quanto tale, a recuperare la dignità esistenziale della persona e ad esplorare il confine tra l’immaginario e l’apparente. I giovani non sopravvivono alla rottura dell’amore narcisistico per un’immagine di sé olimpica e idealizzata: falliscono nel tentativo di recuperare i pezzi, perché l’onnipotenza autarchica è irrimediabilmente perduta. Sono innamorati delle apparenze, sciorinano messaggi scarni come pezzi di sè, ma restano intrappolati nella amarezza della delusione. L’immaginario è altro, ed è il luogo dell’altrove: è il luogo delle “capabilities”, di ciò che le persone sono effettivamente capaci di fare o di essere, e di ciò che scelgono di essere e di fare sulla base delle alternative che hanno a disposizione. Le capabilities riflettono, quindi, la libertà di condurre una vita piuttosto che un’altra, a partire dalle prospettive e dalle condizioni di possibilità in cui sono calati. L’immaginario non è l’iperuranio dell’idealità, ma una visione del mondo in cui si mantenga una disparazione binoculare biologicamente predisposta, per guardare al di là del proprio naso ed esplorare le realtà altra ancora in divenire e in avvenire. Nussbaum considera centrali le capacità (intese come ciò che le persone possono essere messe in grado di fare e non come meri funzionamenti): ogni persona deve essere messa in grado di esplicitare il proprio ventaglio di competenze, affermando così il principio della persona intesa come fine, unica e unico arbitro circa i propri bisogni e le proprie emozioni. La deriva de-educativa da cui siamo immersi è un’incapacità immaginativa che si nutre proprio di ciò che ne dovrebbe costituire un antidoto, il sapere, i saperi, e i libri. La de-culturazione è la cultura del senso comune e dello scontato, dell’assorbimento passivo di ogni già-dato, che appiattisce ogni spunto di alterità e di trasformazione rispetto al convenzionale precostituito. La prassi educativa può farsi carico dell’educazione alle emozioni e alla creatività, in primis all’interno del sistema familiare, dove l’accesso alla dimensione emozionale e alla decifrazione delle emozioni consente di sviluppare consapevolezza, capacità di ascolto e di empatia e di fiducia nei segnali e nelle informazioni elaborati dai processi emozionali. La “sordità affettiva” a cui siamo esposti impedisce quella comprensione profonda dell’altro che permetterebbe di ridurre al minimo i conflitti, le offese, le negazioni, consentendo apertura e dialogo, disponibilità e flessibilità, confronto leale e coevoluzione nell’incontro intersoggettivo. Il senso comune e i meccanismi de-culturanti inducono a stare piuttosto che essere, a stagnare piuttosto che divenire. Pensare la progettualità formativa per l’azione trasformativa e trasformatrice del passaggio all’età adulta, nella seconda decade del Duemila: questa è la sfida. Ipotizziamo un sistema di scaffolding che assista e supporti i percorsi evolutivi dei soggetti in formazione nei contesti educativi formali, non formali e informali: tale sistema, più simile ad un “multistrato complesso” che ad un piano bidimensionale, sarà un’impalcatura funzionale, cognitiva, emozionale e relazionale. L’immagine del multistrato rimanda ad un’area potenziale di livelli concentrici in cui gli enti di diversa complessità, individui, gruppi, istituzioni, società, condividerebbero relazioni affettive e noetiche, e campi di attività mentale e conoscitiva. La reciprocità e l’interdipendenza tra i diversi elementi favorisce lo sviluppo di processi di apprendimento e di formazione identitaria. La ricerca identitaria, difatti, si caratterizza non più solo come il tentativo di rispondere alla crisi dell’istituzione patriarcale e della struttura autoritaria della società, ma come il tentativo di rispondere più ad una “spinta individuale e collettiva” per ricercare identificazioni con simboli ed elementi capaci di dar senso e significato alle esistenze e ai comportamenti. Se si forniscono ai giovani supporti identificativi propositivi, se nella pratica educativa si calano metodi, forme e strumenti di trasformazione e riflessione, su di sé, sugli altri, con gli altri, il cambiamento diventa meno spaventoso, l’adultità non è più lo spauracchio che hanno posto come spada di Damocle sulla testa dei giovani più-o-meno-giovani, e formare al formarsi diventa formazione all’incontro con il divenire nella sua incostante mutabilità. Qualunque rapporto educativo si snoda attorno alla prospettiva relazionale, dal momento che educare significa entrare in una relazione interpersonale che tenga conto dei diversi punti di vista, ai quali si dà senso attraverso i sistemi etici, estetici e le logiche. Nella relazione, e nella relazione educativa, intenzionalmente orientata, si ricreano i linguaggi e le conoscenze, si costruiscono saperi e si negoziano significati e competenze. La pedagogia della relazione si propone di stimolare la riflessione e la coscienziosità come arti indispensabili per la comprensione del proprio unico e privato punto di vista, divergente da quello dell’altro ma sempre pronto ad arricchirsi di questo. Perché, in fondo, non c’è atto formativo che non abbia l’elemento della scoperta e della sorpresa, dell’intuizione e della gioia. L’educazione al pensiero complesso (Morin, 2007) si alimenta dell’ineluttabilità dell’indecisione e dell’incertezza e della necessità di rivolgere il proprio sguardo verso se stesso, ossia verso le proprie modalità di conoscere la conoscenza, rafforzando l’individuo nelle sue capacità interpretative ed assimilative di leggere tra le righe e di acquisire competenza. È un pensiero che non si ferma mai e che non è mai soddisfatto, che arricchisce il mondo circostante di intuizioni e colori e che, altresì, lascia influenzarsi da esso con cautela e riflessione. Ma tale educazione del pensiero al pensiero può vedere la luce solamente nel momento in cui vengono spezzate ed infrante le catene che opprimono i soggetti, asfissiandoli di conoscenze già date e di gerarchie che lasciano poco spazio alla creatività, alla curiosità, all’amore per la conoscenza intima e personale. Questo intrinseco movimento interminabile di apertura alla diversità, all’altro da sé, si codifica ed articola come un sistema di variabili ordinate su più livelli, mutualmente interagenti, ciclicamente intervenienti, strutturandosi come una caotica amalgama teorico-pratica, “dove con il termine caos non si intende l’assenza di cause oggettive, ma l’incapacità di identificarle con precisione nel senso casual-lineare in riferimento a fenomeni complessi, come l’educazione. La nozione di caos deterministico non indica che i fenomeni a cui viene applicato abbiano caratteristiche di inintelligibilità o di incomprensibilità, ma solo che essi richiedono particolari strumenti di analisi. In un sistema caotico vi sono, infatti, fenomeni che obbediscono a tutte le leggi deterministiche, ma, a causa della molteplicità delle variabili che entrano in gioco, tali fenomeni possono essere compresi solo globalmente e, molto spesso, analizzati solo a-posteriori” (Strollo, 2008, p. 5).
3. L’educazione complessa e la giustizia sociale
La riflessione è, dunque, un dispositivo di assoluta importanza e di inevitabile utilizzo per l’educatore che, oltre ad impiegarla per valutare il significato e l’attuabilità delle proprie intenzionali sfide educative, si faccia agente attivo e responsabile della diade di cui è parte, interrogandosi sulle proprie teorie e sui paradigmi impliciti di comunicazione che mette in atto nella situazione educativa. La pedagogia, e la triade educando/educatore/mondo che costantemente la interroga, si trova ad affrontare la sfida storica, che concerne i dispositivi e le modalità che essa deve far propri per veicolare lavori educativi che tengano conto della complessità del mondo, della natura, della cultura e della società e, contemporaneamente e simultaneamente, della costellazione multidimensionale dei soggetti che effettuano gli atti di conoscenza. Morin (2007) sostiene che la realtà, sebbene settorialmente conoscibile dal punto di vista delle singole chiuse discipline, non possa risultare comprensibile per il suo carattere complesso e multidimensionale, che richiede un pensiero in grado di sintetizzare ma allo stesso tempo analizzare, di localizzare ma contemporaneamente globalizzare, i numerosi punti di vista che vanno a colorare ogni atto intenzionalmente conoscitivo. Né il dubbio né la relatività sono ormai eliminabili (Morin, 2007, pp. 12-13). In forza di ciò, l’educazione deve prontamente rispondere alla sfida culturale, sociologica e civica che solleva con vigore una piccolissima parte, “deviante” e “rivoluzionaria”, della società. “Come sempre, l’iniziativa può venire solo da una minoranza, all’inizio incompresa, talvolta perseguitata. Poi avviene la disseminazione dell’idea, che nel diffondersi diventa una forza efficace” (ivi, p. 105). L’input alla promozione del pensiero complesso può provenire dagli strati emarginati della popolazione in grado di affrancarsi da regole ufficiali e omogeneizzanti di logica e di ragionamento, con l’obiettivo di attuare un superamento radicale e, appunto, “rivoluzionario”, per usare le sempre attuali parole di Paulo Freire, di dinamiche squilibrate e di pensieri iper-specializzati, riduzionistici e deterministici. Morin sottolinea a più riprese la necessità di un insegnamento educativo il cui obiettivo sia quello di elicitare, nell’interazione tra tutor ed educando, un pensiero prassico, in movimento costante, dialogico, critico e dubitante: un pensiero che sfugga alla cristallizzazione dei contenuti ma che abbracci il costante divenire a cui partecipano il mondo ed i soggetti, in ossequio ad una “vocazione ontologica e storica degli uomini, quella di essere di più” (Freire, 1970, p. 40), cuore pulsante e fine ultimo della relazione educativa triadica tra educando/educatore/mondo. “[L]a missione della didattica è di incoraggiare l’autodidattica, destando, suscitando, favorendo l’autonomia dello spirito” (Morin, 2000, p. 3) e pertanto l’educazione non può limitarsi a fornire meccanicamente gli oggetti della conoscenza, secondo quella che Freire chiama una “concezione depositaria dell’educazione” (Freire, 1970, p. 57). L’educazione deve offrire i mezzi e gli strumenti per poter ottenere tali conoscenze, per poterle situare, per poterle interrogare criticamente, per poterle organizzare. Dunque, non veicolare “contenuti che sono dei veri e propri ritagli della realtà, sconnessi rispetto all’insieme da cui hanno origine, e in cui troverebbero significato” (ibidem), contenuti che atrofizzano e immobilizzano una delle facoltà più vive e diffuse: la curiosità, ma un pensiero riflessivo e “problematizzante”, strategicamente capace di affrontare un reale e una pratica incerti, unici e conflittuali. L’epistemologia della complessità consente di cogliere la dimensione evolutiva dei fenomeni e costituisce un invito all’umiltà, all’apertura al possibile, al nuovo, all’insolito, all’inatteso, al rischio. In questo senso anche il difficoltoso cammino mai concluso verso relazioni di pace diventa più comprensibile, più accettabile. L’approccio dialogico può diventare a quel punto familiare e l’incertezza può far meno paura, in quanto è proprio essa che assicura gli spazi per la scelta. Il tramonto dell’orizzonte formativo impone il bisogno di confrontarsi con un “inaridimento diffuso del desiderio, che tocca la sfera dei legami, sempre più rarefatti e soggetti a forme di scambio utilitaristico, con il venire meno di un orizzonte progettuale da parte di una generazione adulta che mostra difficoltà a se-durre le nuove generazioni verso prospettive di possibili mondi altri” (Ulivieri Stiozzi, 2012, p. 145). La più grande sfida per l’educazione degli adulti è educare alla solidarietà civile e alla responsabilità sociale, senza distruggere la dignità insostituibile dell’individuo, ma rivolgendosi ad un umanesimo planetario rinnovato (Strollo, 2014) e al principio della complessità che tiene insieme l’unità e la diversità. L’enfasi è sul processo in fieri di riconoscimento delle forme di annientamento dell’altro, di distruzione, di prevaricazione, di deumanizzazione. A questo riconoscimento rispondono le pratiche educative dialogiche, o almeno tentano di rispondervi, giocando empaticamente sull’identificazione con l’altro e sulla costruzione ri-costruzione di un sé dialogico in divenire nella coevoluzione con la realtà circostante e nell’incontro con l’altro e l’alterità. In un approccio educativo dialogico, gli esseri umani sono concepiti come persone impegnate nel processo del diventare e del divenire, che si giocano nella contraddittoria dialettica della relazione sé-altro la possibilità per sviluppare e per svilupparsi. Attraverso la pedagogia critica e le pratiche discorsive, gli individui possono diventare consapevoli che un senso della speranza è possibile, che un altro mondo e un mondo degli altri trova la sua condizione di esistenza nella capacità di immaginare e di riconoscersi in una realtà differente. Non si ricerca l’altrove, ma il possibile, il potenziale, ciò che per il suo essere in potenza ha una dimensione di attualizzabilità che cerca solo la sua realizzazione (Nussbaum, 2009). Si pensi alle relazioni di cooperazione e di fiducia, di solidarietà e di aiuto, che hanno riempito pagine di romanzi e di saggi. Di economisti, certo, ma anche di filosofi e ben pensanti pensatori. La nuova civilizzazione si fonda sul dialogo autentico, sulla costruzione condivisa di nuovi orizzonti di senso, etico, civile, sociale. La giustizia sociale è basata sulla parità di diritti per tutti gli esseri umani, e la loro possibilità di beneficiare del progresso economico e sociale senza discriminazioni. È opinione diffusa che la giustizia sociale è un concetto notoriamente difficile da definire (ad esempio, Blakemore & Drake, 1996). Questo potrebbe essere vero, per chi è interessato alla filosofia o alle dimensioni etiche della giustizia. Questo è meno vero, per quelli ispirati dal suo scopo o convinti del suo ruolo fondamentale per il benessere indipendentemente da qualsiasi tipo di ideologia diversa dall’umanesimo. La giustizia sociale è semplicemente una situazione desiderabile, che bilancia la disuguaglianza e il benessere oligarchico, ed è applicata dalle politiche redistributive abbracciando implicazioni egualitarie. Ai nostri giorni, il paradigma di redistribuzione della giustizia sociale si allarga ad abbracciare anche le dimensioni non materiali, si estende oltre le preoccupazioni tradizionali della distribuzione del reddito e della ricchezza (Lister, 2007). Questa più ampia comprensione dei rapporti sociali e di potere sostiene seriamente che il problema di dominio e oppressione deve essere la base per una concezione della giustizia sociale. Aspetti non materiali della giustizia sociale vanno oltre la distribuzione economica e rientrano nell’identificare il bisogno di giustizia radicato nella lotta per il riconoscimento (Fraser, 1997). Ciò si traduce in richieste politiche di trattamento rispettoso, per la sicurezza sociale e per la concessione della dignità (Lister, 2007). Si tratta di una redistribuzione più approfondita delle risorse tangibili per una minore disuguaglianza, che incorpora la valorizzazione di diritti immateriali verso un concetto di cittadinanza più ampio. La giustizia sociale legittima un principio di uguaglianza redistributiva - una fiera riallocazione del reddito e della ricchezza. Questo principio comporta una serie di politiche di egualizzazione, che modificano la distribuzione iniziale della fornitura di prestazioni sociali. Sotto ogni aspetto, una distribuzione socialmente equa riguarda principalmente la fornitura di adeguati mezzi materiali per vivere con dignità, per superare gli svantaggi e prosperare. La necessità di rendere la maggior parte delle persone coinvolte nell’educazione sia come individui che come membri della comunità, è parte di «una pedagogia della responsabilità» che educa i giovani contemporaneamente per un futuro professionale e per la cittadinanza critica. Rifiutando l'ipotesi comune che il lavoro accademico dovrebbe essere separato dalle operazioni della politica, è necessario rivendicare il ruolo dell'intellettuale come un attore sociale impegnato e della pedagogia come responsabilità sociale. Gli accademici hanno un ruolo particolarmente importante da svolgere come intellettuali pubblici impegnati in questo particolare momento storico. Uno dei problemi più pericolosi che ora devono affrontare è la diffusione del neoliberismo, con la sua enfasi del consumo sulle relazioni di mercato, sulla commercializzazione, la privatizzazione e la creazione di un’economia mondiale di lavoro part-time o precario. Sotto il regno di neoliberismo, i cittadini perdono le loro voci pubbliche. Una pedagogia della responsabilità influenza una politica di impegno: quest’ultima tenta di incoraggiare i cittadini isolati e disarmati di fronte a una cultura globale di insicurezza e di paura. In considerazione delle strategie di ricerca complesse, la comunità scientifica promuove, a vari livelli, una cultura di ricerca come “attività riflessiva”. La ricerca empirica, alimentata da rigore metodologico e tensione creativa, potrebbe essere veramente in grado di proporre i casi che potrebbero essere efficaci e realmente applicabile a scuola, ai contesti educativi, formativi, politici, sociali, dove si può cambiare la prassi attuale. La democrazia non è una macchina che produce da sé, che si autoalimenta, ma è una macchina che necessita di un carburante particolare, l’educazione. Il capitalismo ci sta conducendo verso uno scenario apocalittico, segnato da fratture sociali sempre più forti. Nell’ambito di questo scenario proiettato verso comunicazioni di massa, dove gli individui sono sempre più atomistici e muoventisi senza rete, si può aprire per la pedagogia un varco di interesse sui sistemi di qualità della vita delle persone. L’indicatore attualmente adoperato per il ben-essere delle persone è il PIL, il Prodotto Interno Lordo, che non coglie la drammaticità delle condizioni umane. La pedagogia, in quanto disciplina della formazione, è chiamata ad impegnarsi sul ben-essere, sullo stare bene degli individui. La crisi economica piuttosto che appiattire le differenze economiche, le ha ampliate: da ciò deriva la proposta di un modello di decrescita, piuttosto che di crescita, un modello alternativo, con un assetto sociale non poggiato sulle logiche del mercato, ma un assetto sociale che usa risorse naturali sulla base del reale bisogno, senza sprechi e senza sovraccarichi. Non si tratta di un modello nostalgico, ma di un modello che proponga uno sviluppo sostenibile nell’epoca delle passioni tristi, e della solitudine che si cela dietro ad un monitor. In questo modello sostenibile, l’altro, anche l’anziano viene valorizzato come altro generazionale che può portare uno scambio alle generazioni più giovani. Questo modello sembra impossibile da realizzare eppure così vicino, perché impone all’educatore di formare i discenti alla realtà fattibile, ma anche all’orizzonte desiderabile.
4. La dimensione dialogica della costruzione identitaria dei formatori
Scuola e università non sono fabbriche di cultura, né istituzioni nate per produrre forza lavoro. Possono essere spazi attivi di elaborazione di significati, che quindi innescano processi di scelta individuale, motivano i singoli e i gruppi, rispondono in modo creativo ai loro bisogni, aspettative, speranze. Il compito del pedagogista di oggi non può pertanto essere quello di adattarsi in modo più o meno confacente alle richieste della società. A partire da sollecitazioni sociali reali, la pedagogia deve esigere di tornare a essere promotrice di nuove richieste, che convergeranno verso la società stessa. Che ruolo assume il sistema educativo nel formare i cittadini di quest’epoca ipermoderna? Come teorizzato da differenti autori (Recalcati, 2011; Ulivieri Stiozzi, 2012), la generazione di adulti dell’epoca ipermoderna ha rinunciato, o quanto meno sembra incapace di prendere le redini del loro compito educativo, e di investire nella progettazione di alternative alla caduta stessa del desiderio. La caduta stessa del desidero può essere interpretata come una crisi multi-sfaccettata che esprime la difficoltà di vivere nell’orizzonte del vuoto e della mancanza, di accogliere la chiamata ad esercitare creatività e potere trasformativo, e di emanciparsi dall’adesione acritica e conformistica alla cultura e ai valori di questa società attuale. Gli studenti chiedono oggi che le loro esperienze scolastiche siano collegate con le forme e i contenuti delle loro vite: la peculiarità dell’esperienza universitaria si rivela nell’opportunità di un incontro tra vita e cultura, nel mediare i rapporti tra i discenti e le forme e i contenuti della cultura in cui sono immersi, favorendo le potenzialità di espressione delle abilità cognitive, emotive, relazionali di base dei soggetti come un continuo richiamo di motivi ed aspirazioni tesi ad un’educazione integrale e integrata. In aula, l’adulto, come il tardo adolescente, deve avere la possibilità di interrogare e di narrare la vita, di problematizzarne gli aspetti più contraddittori, di approfondirla, di arricchire le sue conoscenze in un circolarità tra formale-informale-non formale. Gli avvenimenti della sua vita devono essere integrati originalmente nel contesto dei valori, delle credenze, delle procedure comunicative, condivise dal gruppo di appartenenza, sia esso una realtà contestuale e/o territoriale più o meno ampia, attraverso l’appropriazione consapevole e la rielaborazione creativa dei sistemi simbolici della cultura di riferimento, a cui non necessariamente bisogna attenersi in modo conformistico. L’università e la cultura che diventano attive insegnano uno sguardo altro sulle cose e sul mondo, e lo fanno attraverso un’educazione affettiva, emozionale, un’educazione all’immaginazione, oltre che all’immagine: l’immaginazione è il mezzo necessario per far rinascere la meraviglia di fronte le cose, per leggere la profondità del mondo, per esplorare tutte le alternative possibili ai modelli educativi mainstream. Goleman (1996) parla a tal proposito di un’“alfabetizzazione emozionale” (Goleman, 1996, p. 310), che insegna un nucleo di competenze emozionali e sociali fondamentali, come il controllo dell’aggressività e della collera, e stimola a trovare soluzioni creative alle situazioni esistenziali e sociali difficili. L’alfabetizzazione emozionale ha il suo vertice nell’autoconsapevolezza, nella capacità cioè di riconoscere i sentimenti, le emozioni e di costruire un vocabolario per la loro verbalizzazione. L’autoconsapevolezza è cogliere i nessi tra pensieri, sentimenti e reazioni, sapere se si sta prendendo una decisione in base a riflessioni o a sentimenti, prevedere le conseguenze di scelte alternative, applicare queste conoscenze a decisioni su temi rilevanti, esplorare alternative al conflitto e alla violenza come soluzioni dei disagi e dei conflitti. È infine competenza ad affrontare la paura, le tensioni, l’ansia, la tristezza, e a capire cosa c’è dietro un’emozione o una sensazione. In una società patofoba come la nostra, terrorizzata dall’idea stessa della sofferenza e impantanata in un’emotività tesa al piacere immediato e alla gratificazione più facile e diretta, l’alfabetizzazione emozionale procede e fa parte della formazione degli educandi, con la loro crescita sociale e morale, oltre che civica. Per raggiungere tali obiettivi, la didattica laboratoriale e il metodo “euristico” si rivelano più idonei: nella didattica laboratoriale e nella ricerca, gli alunni sono stimolati a risolvere i problemi, problem-solving, ma anche a porre le domande e i problemi stessi, problem-posing, attraverso il confronto collaborativo tra compagni. Con tali metodologie didattiche, i discenti imparano a studiare, a organizzare le situazioni problematiche, a collaborare e a riflettere, a prendere l’iniziativa e a dilazionare il tempo dell’azione. Imparano ad apprendere insieme, a sviluppare le proprie inclinazioni e a dare il proprio contributo nel gruppo di apprendimento.
5. Ripensare la didattica alla luce della crisi: proposte metodologiche
La sfida che si pone nell’epoca della crisi e della complessità è quella di riprogettare la didattica, a partire dalla necessità di rifocalizzare le costanti nei processi sociali e culturali. Se la costante sembrava essere la possibilità di avere certezze fino al secolo scorso, attualmente la sola costante che si può ritrovare è quella che non sussistono costanti, eccetto il continuo cambiamento, la vocazione a ricreare le proprie identità caleidoscopiche continuamente, per adattarsi ai cambiamenti del mondo e alle evoluzioni di tutto ciò che ci sta intorno. La sfida maggiore che si pone a tutte le agenzie formative formali, non formali ed informali, è quella dell’eredità : cosa resta del desiderio? Cosa si può lasciare in eredità a coloro che trasmutano e coevolvono nelle aule dell’università? Il sapere utile non è solo quello tecnicistico che rende esperti in determinati settori disciplinari, ma anche quello che insegna a leggere il mondo non soltanto per quello che è, ma per ciò che potrebbe diventare, che valorizza la polisemia dei significati quale luogo in cui possono disvelarsi alternative valoriali e culturali, che offre gli strumenti e il campo per divenire creatori, non solo fruitori. Se le prime teorie dello sviluppo in campo psicologico e pedagogico sostenevano che lo sviluppo del soggetto si estendesse sino all’età adulta, le teorie dello sviluppo lungo tutto il corso della vita hanno ribaltato questa posizione, sottolineando come lo sviluppo e l’apprendimento avvenga lungo tutto il corso della vita dell’individuo. Questo comporta la necessità di prospettare una teoria dell’apprendimento degli adulti, a cui consegue la progettazione e implementazione di metodologie per l’apprendimento degli adulti. L'apprendimento è l’acquisizione di conoscenze nuove, abilità, atteggiamenti, comportamenti e valori attraverso l’esperienza, la pratica, o di studio o per istruzioni. Nei contesti globali, chi può pensare criticamente, sfidare i propri assunti di partenza, può aiutare proattivamente i cambiamenti sociali e all’interno delle organizzazioni. Il cambiamento dipende dall’abilità a pensare e agire in modi più complesso, e l’apprendimento critico è il naturale adattamento per impegnarsi in cambiamenti personali e sociali in talune circostanze. Dal momento che l’apprendimento è centrale a pressocchè tutte le scelte personali, soprattutto un apprendimento inteso in termini di connessioni tra saperi, esperienze, input e stimoli e conoscenze pregresse, e a tutte le forme di partecipazione sociale, i supporti strutturali all’apprendimento nel corso della vita devono andare oltre l’apprendimento strumentale vocazionale e il modello basico dell’educazione degli adulti come seconda scelta (Tuijnman, 2002): l’avvicinarsi alla tematica della didattica per il lifelong learning comporta una grande assunzione e condivisione per i ricercatori di responsabilità per i contenuti, l’organizzazione, i risultati, e la disseminazione dell’educazione e della formazione come per il supporto informale degli adulti. A tal riguardo, un modello metodologico che si è dimostrato vincente negli ultimi quindici anni è il modello dell’Action Learning, sviluppato e implementato tanto per l’utilizzo nei contesti accademici quanto nei contesti organizzativi di lavoro. In tal senso, l’Action Learning può rappresentare un rapido volano di trasformazione, dal momento che è un approccio a lavorare e a sviluppare con le persone che usa il lavoro su un progetto o un problema attuale come strategia di apprendimento. I partecipanti lavorano in piccoli gruppi per entrare in azione per risolvere il loro problema e imparare come imparare dall’azione. Spesso un coach di apprendimento lavora col gruppo al fine di aiutare i membri ad imparare come equilibrare il loro lavoro con l’apprendere da quel lavoro (O’Neil & Marsick, 2007, p. 6). Per la metodologia che andremo a descrivere, risulta fondamentale chiarire le tipologie di apprendimento coinvolte:
Nell’Action Learning il processo viene insegnato, lungo il corso dello sviluppo di competenze per implementare quel processo. Il processo di Action Learning non è direttamente trasferibile, perchè sociosituato, e le competenze dell’Action Learning del mettere in discussione, riflettere, e controllare gli assunti originari dovrebbero poi essere incarnate nella pratica di ogni giorno. L’adozione di queste skills può aiutare a cambiare il sistema in cui è immerso il soggetto. Inoltre, la sospensione di ogni risposta immediata, al fine di acquisire un tempo di esplorazione delle possibili alternative alla situazione problematica, aiuta sia l’implementazione delle modalità comunicative dei partecipanti, più propensi all’ascolto dell’altro, sia il miglioramento delle perfomances risolutive, instaurando il tempo del pensiero. È lo spazio della “separazione”, dove i partecipanti sono separati dal loro ambiente sociale precedente, ma possono agire e riflettere su di esso. L’Action Learning offre una temporanea “struttura liberante”, dove i partecipanti, sotto le giuste condizioni, possono usare potenzialità di programmazione per mettere in discussione criticamente e esaminare i propri assunti, con buoni risultati. Non solo cambiano le prospettive dei partecipanti, ma può cambiare anche il sistema stesso, dal momento che l’impegno di ciascuno nel gruppo e il rispondere positivamente agli stimoli dell’altro, genera nuove idee e nuove sfide, in un loop ricorsivo di stimolazioni continue a rimettere in discussione norme e atteggiamenti. I membri sono come sospesi nel dubbio interrogativo, per autoesaminarsi e interrogarsi in modalità più o meno condivisa con gli altri con cui interagiscono, anche arrivando ad astrarsi dalla situazione problematica per poterla risolvere. Al fine di facilitare la comprensione di tale metodologia, si riporta come case-study un workshop esperienziale della durata di due weekend (svoltosi nei mesi di Marzo-Aprile 2015) interamente dedicato all’apprendimento della metodologia dell’Action Learning e rivolto a studenti del programma di dottorato Adult Learning & Leadership del Teachers College, Columbia University, New York, a cui la scrivente ha partecipato in qualità di osservatrice non partecipante. Di seguito sono descritte le varie fasi di lavoro. Il setting dei workshop prevedeva la presenza di circa 16 studenti del programma di dottorato, di tre coach, per una modalità di lavoro in presenza di 8 ore per giornata laboratoriale.
1. Apertura della sessione di lavoro durante il primo weekend:
Seduti in cerchio, la coach/professoressa inizia il processo chiedendo “quali sentimenti o pensieri avete riguardo l’Action Learning?” e i discenti iniziano a discutere insieme, ciascuno portando la propria considerazione. Uno degli studenti parte dicendo che è un processo in cui si è coinvolti, e che porta ad un cambiamento anche quando non si vuole cambiare, e la dimensione del gruppo è veramente d’aiuto e di supporto, soprattutto per i momenti di brainstorming e per le discussioni, attraverso cui si può affrontare il disorientamento e il problema con delle modalità che precedentemente non si avevano. April, un’altra studentessa, sottolinea l’aspetto di riflessione fluttuante che si ha nell’Action Learning, più di quanto accade in altre metodologie. L’aspetto di rifessione, per Alayah, si esplica nell’essere critica in un modo positivo, nell’essere riflessiva, e nel chiedersi costantemente “cosa avrei fatto?”. Samantha L. dice che una volta posto il problema, bisogna pensare cosa è chiaro per sé, e cosa è chiaro per gli altri, incorporare le riflessioni degli altri con le proprie, far cooperare le proprie riflessioni con quelle altrui, riflettere sulle proprie prospettive e su come la cultura le influenza, per poi spingerle via e riflettere insieme. Per lei la classe è più l’occasione di internalizzazione delle riflessioni e di riflessione sulle riflessioni già internalizzate. È, secondo un altro studente, un processo di riflessione, che ferma i pensieri e le cornici di riferimento che sono state costruite in altri corsi, per entrare nell’esperienza e sospendere pregiudizi e modi preconfezionati di risolvere i problemi. Joan, uno dei tre coach, dice che è un apprendimento fondato sull’azione, dove non ci sono discorsi teorici, ma c’è un apprendimento riflessivo attraverso cui si maneggia realmente la situazione problematica, e la sfida è quella di fare concretamente qualcosa, perche è un ACTION learning. Un’altra studentessa dice che il gruppo dell’Action learning è una sfida per cimentarsi in qualcosa di sconosciuto. Samantha R. ancora dice che non ci sono definizioni uniche, ma solo idee e riflessioni in fieri, come il processo stesso di riflessione. A tal riguardo, nell’esperienza dell’Action Learning le persone possono avere un briefing e un debriefing, con la condivisione nel gruppo delle conoscenze e lo scambio di feedback, di supporto e di raccomandazioni. C’è una interazione maggiore face-to-face, a tutti i livelli, ed è un processo di lavoro in team, di gruppo. Il feedback di ogni partecipante può migliorare il proprio lavoro, e ogni interpretazione può aiutare l’altro nella costruzione di questo apprendimento nel gruppo. In merito, la gerarchia all’interno del gruppo di lavoro potrebbe essere deleteria per la comunicazione e i feedback, ma il discutere in senso dialogico, magari dandosi come regola il parlare solo per un minuto, può favorire lo scambio di idee e la giusta tensione tra il compito da svolgere e l’apprendimento riflessivo in atto. Si passa poi all’analisi del lavoro di gruppo. C’è la presentazione di un case-study, con un problema reale che deve essere risolto da ogni team, a partire dall’analisi dei problemi e dalla raccolta di informazioni: il case-study della sessione odierna è una problematica relativa al Jefferson Hospital di Philadelphia. Viene invitato Dimitri, attualmente CEO del Jefferson Hospital, a presentare la criticità avvertita all’interno dell’ospedale: pare non ci sia una buona gestione dei pazienti e del loro invio, della archiviazione della documentazione e degli scambi di informazione. A seguito della analisi della domanda del cliente, gli studenti si dividono in tre team, e inizia la raccolta di informazioni, che grazie alla potenza degli strumenti tecnologici, può essere effettuata coinvolgendo direttamente gli stakeholder, non solo il Ceo, ma anche i dipendenti e gli impiegati.
2. La creazione del disegno operativo:
Dopo aver ottenuto l’impegno e gli obiettivi operativi del team, la fase successiva è essenzialmente quella di definizione e costruzione del disegno di lavoro. Il disegno appropriato dipendono dalla storia e dalle risorse dell’organizzazione, dalle personalità coinvolte, e dallo spirito e dalla creatività dei responsabili delle attività di progettazione del programma. Al centro di una progettazione adeguata c’è una consapevolezza dei processi attraverso cui gli adulti apprendono. Sappiamo che gli adulti imparano meglio dai progetti vivi, dal supporto e dalla critica costruttiva dei colleghi, da una rigorosa auto-riflessione che porta a gravi reinterpretazioni delle loro esperienze precedenti e da una volontà di testare le loro ipotesi in azione. Si ha il bisogno di progettare, di conseguenza, un processo di apprendimento organizzativo che unisca l’analisi, la prognosi, l’implementazione e il test, con un gruppo di riferimento che affronta problemi simili e che rispetta la sperimentazione personale e la riconsiderazione che è al centro del processo di Action Learning. Questo raggruppamento è chiamato project-set, insieme del progetto. Si tratta di un gruppo di compagni di avversità che danno, e si aspettano come reciproco, sostegno personale e onesto, critiche costruttive come imposto dai diritti e i doveri di ciascun membro del progetto. Il set dà il rigore e il ritmo attraverso la regolarità delle riunioni a cui ogni individuo è tenuto a prendere parte per sviluppare la capacità di riflettere su tutti i piani d’azione proposti e sulle loro conseguenze. Poi incoraggia la reinterpretazione delle realtà di tale piano e la sua attuazione in corso di svolgimento. Certi momenti particolari del processo di trasformazione rivelano l’emergenza di nuove visioni condivise, di insight e iniziative co-elaborate in relazione a valori condivisi. Quando si considerano esperienze laboratoriali, workshops and meeting, si potrebbe verificare una trasformazione “a cascata”, dove la trasformazione in uno degli incontri o in una delle attività condotte influenza le possibilità di trasformazione degli altri spazi e delle altre iniziative, come tipicamente accade nei sistemi complessi. I sistemi complessi si caratterizzano per la reciproca interdipendenza tra le parti che li costituiscono, al punto che l’intero sistema assume quella struttura proprio per l’insieme delle relazioni tra le sue componenti. Una trasformazione in una delle componenti porta un riassetto dell’intero sistema, con squilibri e riequilibri tra le parti: la stessa società è un sistema complesso, fatta a sua volta di tantissimi microsistemi complessi, e le trasformazioni a cascata si muovono tra le componenti all’interno dello stesso sistema, e tra le componenti di un sistema e l’altro, provocando continui aggiustamenti e riassetti in un moto indefinito e infinito. Nel caso dei workshop in esame, sono state condotte interviste, focus group e questionari, per poi elaborare un modello di problem-posing e di problem-solving con delle proposte progettuali. È emerso che la prima criticità era relativa alla duplice natura del Jefferson come ospedale e come struttura di ricerca, al punto che alcuni dipendenti nemmeno sapevano dell’accreditamento della struttura come polo di ricerca scientifica. Poi si sono evidenziate criticità di comunicazione e di gestione del materiale documentaristico, necessità di riassettare le strutture comunicative all’interno della piramide gerarchica e di facilitare il riconoscimento del malcontento attraverso programmi strutturati di intervento diretto con gli impiegati. Insomma, un programma di action-learning nell’action learning, promuovendo la capacità degli impiegati di porsi il problema di quanto sta accadendo e di poterlo poi risolvere lavorando in team con proposte concrete. Altro punto su cui si è lavorato è sulla promozione di un’identità professionale forte che si riconoscesse nei valori dell’organizzazione, dal momento che spesso i lavoratori non erano a conoscenza delle caratteristiche dell’organizzazione per cui lavoravano. Nel secondo weekend, ogni gruppo ha preparato delle presentazioni che espone poi al panel composto dalla docente, dai tre facilitatori presenti in ogni gruppo e dal cliente. A partire dall’osservazione in fieri di tutto il percorso, si può vedere come il ciclo di Action-Learning può essere caratterizzato come mostrato in Figura 1. Il cliente è la persona che possiede in ultima analisi, il problema in esame - la persona che sarà finalmente ritenuta responsabile per la risoluzione del progetto su cui i partecipanti lavorano. Nei programmi pilota il cliente è in genere un outsider con responsabilità per il settore chiave problema. Il consulente è di solito una persona esterna all’organizzazione che aiuta i processi di sviluppo dei singoli e dell’insieme. Ci sono caratteristiche di programmi di successo che dipendono da una combinazione del tipo e della situazione di progetto. Dall’osservazione delle prime fasi di lavoro risulta che: 1. i propri progetti di lavoro tendono ad essere efficace per lo sviluppo dei ruoli personali e per la reinterpretazione di lavori specifici all’interno dell’organizzazione; 2. gli scambi interni tendono ad essere efficace per lo sviluppo personale e per stabilire migliori collegamenti tra funzioni specialistiche all’interno dell’organizzazione; 3. gli scambi esterni tendono ad essere molto efficaci per lo sviluppo personale e per aiutare l’organizzazione cliente imparare a valorizzare le diverse esperienze e punti di vista; 4. gli scambi tecnici tendono a non essere efficaci per lo sviluppo di competenze gestionali di problem-solving a causa della loro eccessiva concentrazione sulle tecniche, ma sono utili per la diffusione delle migliori pratiche. Nelle attuali condizioni economiche, è evidente che i top manager sono ansiosi di ottenere risultati rapidi e convenienti all’interno delle proprie organizzazioni. In queste condizioni gli approcci individualmente-orientati tendono ad essere visti come sono approcci necessari ma troppo lenti. Negli ultimi anni c’è stato un aumento del numero di programmi con divisione in squadre. Questi piccoli gruppi - in genere quattro o cinque partecipanti di solito ma non esclusivamente provenienti da una sola organizzazione - lavorano su un problema cruciale del business come un unico progetto. Come team formano una forza politica molto più forte di cambiamento nell’organizzazione che un individuo. Questa forza maggiore in genere garantisce che i cambiamenti diffondano velocemente una volta che il processo di apprendimento di azione è in corso. I progetti del team sono, quindi, un potente strumento di rinnovamento organizzativo. Questa richiesta per aumentare la portata e la velocità di diffusione di Action-learning all’interno delle organizzazioni ha sottolineato la necessità di sviluppare un atteggiamento di comunità di apprendimento a tutti i livelli dell’organizzazione. Lo step di partenza resta quello di adottare un’ingenuità intelligente nel mettere in discussione le ipotesi di lavoro dell’organizzazione, come fase di partenza del processo di action-learning. Il rigore e il ritmo del set del progetto e l’energia e l’impegno per risolvere i problemi costituiscono la forza motrice per il decollo organizzativo. Con questa combinazione è possibile intraprendere veramente una riforma organizzativa, del ruolo dei formatori e dei facilitatori. I formatori hanno bisogno di abbracciare un cambiamento significativo se vogliono diventare professionisti efficaci di Action-learning e gestire la complessità dei processi educativi in ogni contesto formativo. La pratica di sviluppare un tale sistema di apprendimento è un lavoro di gestione a pieno titolo e necessita, quindi, di capacità di gestione e di management. Non è sufficiente essere solo un buon tecnico per la strutturazione e la gestione di un programma di Action-Learning, ma sono richieste competenze di ascolto, analisi, l’utilizzo di una vasta e flessibile gamma di ingressi comportamentali, attitudinali e cognitivi, il lavoro per l’assimilazione del processo di Action-Learning all’dell'impresa attraverso la dimostrazione della sua efficacia. Parallelamente alle fasi di disegno e di organizzazione, e per tutto il programma di Action-Learning, il coach è il consigliere che aiuta tutti i soggetti coinvolti nel processo ad interpretare le situazioni problematiche attraverso le proprie esperienze. Ciò richiede la capacità di spiegare ciò che viene proposto e previsto in un linguaggio appropriato per ogni parte dell’organizzazione. Una parte essenziale di questo ruolo è la capacità di demistificare le fantasie dei partecipanti sul motivo per cui la direzione (top-management) intende avviare il processo di Action Learning, e poi in seguito evidenziando come si sviluppa attraverso il processo l’apprendimento individuale e di gruppo. In tutti questi nuovi ruoli è impossibile per i formatori mantenere una cassaforte, off-line, un ruolo cristallizzato. L’impegno per lo sviluppo di processi di Action-Learning in un’organizzazione è senza dubbio più rischioso che acquisire posizioni tradizionali. Sembra che la gestione di un programma di Action-Learning è un utile test di competenza di gestione generale.
3. La valutazione dell’efficacia della sessione di Action Learning avviene su più livelli:
Livello I - Reazione: Quanto bene ha fatto ai partecipanti il programma? Livello II - Apprendimento: Quali conoscenze, abilità, e atteggiamenti sono stati appresi nel programma? Livello III - Performance: cosa cambia in termini di prestazioni di lavoro sperimentate dopo la partecipazione al programma di Action Learning? Livello IV - Risultati: quali sono stati i risultati concreti del programma in termini di riduzione dei costi, miglioramento della qualità, miglioramento della quantità, ecc., dell'organizzazione? La situazione problematica iniziale è stata risolta? E se si, come? La valutazione dell’efficacia si accompagna alla valutazione della competenza raggiunta dai partecipanti, nei processi di ordine superiore di pensiero, per esempio, nel pensiero critico, nell’apprendimento a doppio ciclo, nella trasformazione prospettica, ecc. La valutazione delle capacità di pensiero richiede un paradigma costruttivista, secondo cui è lo studente che identifica cosa lui/lei ha imparato ed è lo studente che dimostra che un cambiamento osservabile ha avuto luogo. In un contesto più ampio, la valutazione dello sviluppo delle capacità di pensiero può contare sulla produttività del singolo nella ricerca e di attività di problem-solving all’interno della propria cultura di appartenenza.
Figura 1. Il ciclo dell’Action Learning
Figura 2: la circolarità tra ruoli e agenzie organizzative nel ciclo dell’Action Learning
Figura 3: Set del gruppo per l’Action Learning
7. Conclusioni e prospettive future
Jarvis (2005) osserva che le persone di tutte le età devono oggi fronteggiare enormi pressioni ad imparare e a prendersi le responsabilità per il loro apprendimento. La pressione ad imparare deriva dalla così-chiamata società della conoscenza, che è caratterizzata da rapidi e al contempo discontinui cambiamenti che disturbano le loro vite e richiedono loro di imparare e di ricrearsi: gli individui spesso non sono preparati per affrontare questo compito di apprendimento, e perdendo tali occasioni formative e le competenze che potrebbero sviluppare sono facilmente marginalizzati. Alcuni ricercatori (Field, 2006) hanno osservato nuove forme di discriminazione basate sull’educazione e sulla competenza combinata con le discriminazioni tradizionali, quali quelle per razza o genere: il risultato di tale mix è la produzione di nuovi e più complessi pattern di ingiustizia e disuguaglianza nella società. Ci sono nuovi ambienti di apprendimento, quali i luoghi di lavoro nelle organizzazioni statali e nelle agenzie formative private, che diventano siti significativi per l’educazioni degli adulti: lo svantaggio si accumula facilmente per quegli adulti che sono tagliati fuori dalle strutture di opportunità nella società. Le implicazioni di questi gap tra le agenzie formative e chi ha accesso o meno a tali agenzie è un trend di ingiustizia e inequità in campo educativo nel ventunesimo secolo: l’idea del lifelong learning diventa centrale a livello politico perché l’apprendimeto viene promosso come una soluzione ai problemi sociali e un modo per ripensare le istituzioni e le risorse educative delle strutture della società. Ogni educazione che punti alla crescita autentica della persona e del cittadino non può che essere educazione alla pace. L’Educazione alla pace è insieme educazione personale, educazione alle relazioni interpersonali, educazione alla responsabilità, educazione alla legalità, educazione alla cittadinanza attiva, educazione antirazzista, educazione ad una gestione responsabile dell’economia, educazione alla mondialità. L’educazione non è la via principale alla pace: essa, piuttosto, può indirizzare, supportare e stimolare quella via, che è e resta la via politica. È un compito arduo, nel momento in cui il discorso politico è come inceppato su tutti i temi fondamentali per l’umanità e sembra, almeno a livello istituzionale, aver ceduto il timone ai potentati economici e finanziari. Finchè i processi deliberativi saranno tenuti lontani dai luoghi di espressione democratica, finchè la logica dei processi economico-finanziari sarà fatta prevalere sulle ragioni (complesse) della politica, l’educazione non potrà che avere le armi spuntate: anche in questo caso tuttavia potrebbe avere senso agire, per seminare comportamenti e atteggiamenti di pace capaci di mantenere aperte possibilità evolutive diverse. Ma resta importante essere consapevoli dei limiti e delle potenzialità delle proprie scelte e delle proprie azioni, per evitare di scambiare per impotenza un potere soggetto a limiti. L’educazione alla pace, come l’educazione alla cittadinanza, l’educazione alla partecipazione, l’educazione alla responsabilità sociale richiedono che sia rivolta un’attenzione adeguata alla dimensione dialogica, sia a livello micro sia a livello macro. Gli educatori devono fare i conti con il fatto che una pedagogia della pace deve riuscire a tenere insieme il livello macro (politico-istituzionale, planetario) e il livello micro (le relazioni, i rapporti di potere, lo sviluppo dell’empatia: a scuola, nella famiglia, nei gruppi sociali, nelle associazioni). L’educazione critica e popolare sostiene l’inviolabilità del valore della vita e, se si educa davvero, si opera per la sua piena espressione autonoma. Non è possibile pensare l’educazione senza credere nell’uomo come essere assolutamente unico, dunque non legittimamente riducibile all’interno di alcuna categoria. Non possiamo pensare ad un’educazione democratica se non crediamo nel diritto di ciascuno di pensare liberamente ed esprimere altrettanto liberamente il proprio pensiero. Un educatore che si sente senza futuro, toglie il futuro a tutti quelli che incontra (Romano et al., 2014). Condizione indispensabile affinché questo avvenga è che il confronto si svolga in un clima in cui ciascuno sia legittimato, l’insulto sia bandito, nessuno venga accusato di delazione nell’atto di espressione della propria opinione. All’interno di questa scelta il dialogo, la costruzione dei processi politici attraverso la «parola» e l’«azione» prevalgono sull’imposizione di qualsiasi Verità. L’uomo viene fatto prevalere sul dogma.
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