Mies diceva che «la bellezza è legata alla realtà, non si libera nell’aria, si attacca alle cose ed è indissolubilmente connessa alla forma delle cose». Come al solito nei quasi-aforismi del maestro di Aachen sono contenuti in buona parte i poli sostanziali di questioni e problemi legati alla nostra disciplina, al suo statuto e alla sua natura essenziale. L’architettura deve cercare la sua bellezza come splendor veritatis e questa bellezza non deve essere arcana, non deve rendersi nascosta o celata ma deve poter essere “attaccata” e “incorporata” alla forma delle cose. L’architettura produce oggetti particolari, cose appunto, non cosette o mere res come direbbe Heidegger, e questi oggetti sono il luogo e lo spazio dove si svolge la vita. Gli oggetti dell’architettura come di recente è stato precisato sono degli “artefatti” e non solo oggetti del mondo sociale, nel senso che hanno una materialità ed uno statuto ineludibile che pure se hanno bisogno di una ideazione soggettiva per essere prodotti e poi condivisi, restano tali anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti e condizionano, nel bene e nel male, i modi e la scena della nostra vita. Per queste ragioni gli artefatti prodotti dall’architettura intertengono rapporti e connessioni sia con i così detti oggetti ideali (i principi e le teorie) sia con la moltitudine degli oggetti fisici e naturali pur non essendo l’architettura confondibile con le montagne i fiumi, le colline etc… Lo statuto degli artefatti architettonici è quindi triplice ideale e fisico, come altri artefatti, e al tempo stesso sociale, come le opere d’arte, oggetti particolari connessi quindi a un riconoscimento intersoggettivo. Su questa particolarità oltre ad alcune tesi di Ferraris che tendono ad interpretare gli oggetti architettonici come “documenti inscritti nelle pietre” mi pare importante collegare a tale impostazione teoretica una, di analogo impianto teoretico, tentata da Carlos Martì Arìs nel suo saggio Le variazioni dell’identità. Lo sforzo di Arìs appare particolarmente rilevante nel tentativo di particolarizzare ed implementare e non semplicemente di trasferire o translitterare la Teoria dei tre mondi di Popper in ambito architettonico. Secondo Aris, infatti, i tre mondi di Popper - enterni reali e mutuamente condizionantesi direttamente e non - (“mondo 1” degli oggetti fisici; “mondo 2” delle esperienze soggettive e degli sati mentali; “mondo 3” degli enunciati, delle teorie e dei contenuti oggettivi del pensiero) possono diventare la base di una auspicabile «epistemologia oggettiva dell’architettura». Le architetture sono il tramite visibile ed esperibile tra il mondo interno (il progetto) e il mondo esterno (l’opera) sono dei “fatti” nel senso di “azione accaduta realmente”, sono «musica congelata» come amava dire Goethe capace certo di suscitare emozioni ma in grado soprattutto di far avanzare la conoscenza del mondo e dell’uomo. In tal senso Aldo Rossi a proposito della città, che è il deposito complessivo di queste opere e di questi artefatti, scrive che «la città e territorio si costruiscono per fatti definiti: una casa, un ponte, una strada, un bosco. Ciascuno di questi fatti costituisce la città e il territorio ed esiste il disegno integrato di una serie di questi fatti». Fatti urbani, monumenti, tracciati ma anche fatti naturali che l’architettura commenta ed ordina - e non solo interpreta - in un disegno unitario e intellegibile. A questo punto dovrebbe apparir chiaro cosa può essere un’architettura realista o se si vuole un orientato e fondato modo di intendere l’architettura. Una posizione che, lungi dal voler apparire l’unica possibile ritenendo le altre inammissibili o errate, vorrebbe poter affermare legittimamente il suo specifico punto di vista senza per questo essere giudicata fuori dal tempo o superata semmai da altri atteggiamenti che ritengono che avere una teoria strutturata sia di per sé reazionario o nel migliore dei casi neo-illuminista (come se fosse on onta). In tal senso la previsione di Manfredo Tafuri quando afferma che «Il bagno nel realismo produce così il sonno della ragione. I mostri non si faranno attendere. Si tratterà del rovescio dello stato d’animo che aveva generato le mitologie dell’immediato dopoguerra: al realismo come ideologia si sostituirà ben presto il recupero dell’utopia» ci sembra quanto meno da mettere in questione. Nel senso che chi oggi vuol dirsi realista o meglio vorrebbe provare ancora a connettere l’architettura alla realtà non vuole e non vorrebbe sognare, ritiene che la ragione sia incorporata all’architettura e vorrebbe contrapporre ai mostri e all’utopia forme reali concrete ma soprattutto adeguate a conoscere e a riconoscere la realtà. L’architettura in altri termini non può - costitutivamente - essere una favola, una manifestazione evanescente, naturalistica, iperrealistica o surrealistica della realtà che ci circonda, una mera rappresentazione di essa ma piuttosto dovrebbe proporre una sua modificazione, un suo miglioramento. Non può essere schiava delle mode passeggere contraddicendo ogni volta le sue premesse, non può puntare solo all’espressione soggettiva dell’artista in cui, come dice Borges, «il pensiero che un solo uomo può formare non tocca nessuno» e per non diventare solipsistica espressione del mercato deve tentare di proporre un ordine razionale e per ciò stesso intellegibile in cui la razionalità non è “astratta” ma “estratta”, sussunta, dalla realtà delle cose della vita.

Cosa non può essere una architettura realista / Capozzi, Renato. - STAMPA. - 634:(2013), pp. 224-233.

Cosa non può essere una architettura realista

CAPOZZI, RENATO
2013

Abstract

Mies diceva che «la bellezza è legata alla realtà, non si libera nell’aria, si attacca alle cose ed è indissolubilmente connessa alla forma delle cose». Come al solito nei quasi-aforismi del maestro di Aachen sono contenuti in buona parte i poli sostanziali di questioni e problemi legati alla nostra disciplina, al suo statuto e alla sua natura essenziale. L’architettura deve cercare la sua bellezza come splendor veritatis e questa bellezza non deve essere arcana, non deve rendersi nascosta o celata ma deve poter essere “attaccata” e “incorporata” alla forma delle cose. L’architettura produce oggetti particolari, cose appunto, non cosette o mere res come direbbe Heidegger, e questi oggetti sono il luogo e lo spazio dove si svolge la vita. Gli oggetti dell’architettura come di recente è stato precisato sono degli “artefatti” e non solo oggetti del mondo sociale, nel senso che hanno una materialità ed uno statuto ineludibile che pure se hanno bisogno di una ideazione soggettiva per essere prodotti e poi condivisi, restano tali anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti e condizionano, nel bene e nel male, i modi e la scena della nostra vita. Per queste ragioni gli artefatti prodotti dall’architettura intertengono rapporti e connessioni sia con i così detti oggetti ideali (i principi e le teorie) sia con la moltitudine degli oggetti fisici e naturali pur non essendo l’architettura confondibile con le montagne i fiumi, le colline etc… Lo statuto degli artefatti architettonici è quindi triplice ideale e fisico, come altri artefatti, e al tempo stesso sociale, come le opere d’arte, oggetti particolari connessi quindi a un riconoscimento intersoggettivo. Su questa particolarità oltre ad alcune tesi di Ferraris che tendono ad interpretare gli oggetti architettonici come “documenti inscritti nelle pietre” mi pare importante collegare a tale impostazione teoretica una, di analogo impianto teoretico, tentata da Carlos Martì Arìs nel suo saggio Le variazioni dell’identità. Lo sforzo di Arìs appare particolarmente rilevante nel tentativo di particolarizzare ed implementare e non semplicemente di trasferire o translitterare la Teoria dei tre mondi di Popper in ambito architettonico. Secondo Aris, infatti, i tre mondi di Popper - enterni reali e mutuamente condizionantesi direttamente e non - (“mondo 1” degli oggetti fisici; “mondo 2” delle esperienze soggettive e degli sati mentali; “mondo 3” degli enunciati, delle teorie e dei contenuti oggettivi del pensiero) possono diventare la base di una auspicabile «epistemologia oggettiva dell’architettura». Le architetture sono il tramite visibile ed esperibile tra il mondo interno (il progetto) e il mondo esterno (l’opera) sono dei “fatti” nel senso di “azione accaduta realmente”, sono «musica congelata» come amava dire Goethe capace certo di suscitare emozioni ma in grado soprattutto di far avanzare la conoscenza del mondo e dell’uomo. In tal senso Aldo Rossi a proposito della città, che è il deposito complessivo di queste opere e di questi artefatti, scrive che «la città e territorio si costruiscono per fatti definiti: una casa, un ponte, una strada, un bosco. Ciascuno di questi fatti costituisce la città e il territorio ed esiste il disegno integrato di una serie di questi fatti». Fatti urbani, monumenti, tracciati ma anche fatti naturali che l’architettura commenta ed ordina - e non solo interpreta - in un disegno unitario e intellegibile. A questo punto dovrebbe apparir chiaro cosa può essere un’architettura realista o se si vuole un orientato e fondato modo di intendere l’architettura. Una posizione che, lungi dal voler apparire l’unica possibile ritenendo le altre inammissibili o errate, vorrebbe poter affermare legittimamente il suo specifico punto di vista senza per questo essere giudicata fuori dal tempo o superata semmai da altri atteggiamenti che ritengono che avere una teoria strutturata sia di per sé reazionario o nel migliore dei casi neo-illuminista (come se fosse on onta). In tal senso la previsione di Manfredo Tafuri quando afferma che «Il bagno nel realismo produce così il sonno della ragione. I mostri non si faranno attendere. Si tratterà del rovescio dello stato d’animo che aveva generato le mitologie dell’immediato dopoguerra: al realismo come ideologia si sostituirà ben presto il recupero dell’utopia» ci sembra quanto meno da mettere in questione. Nel senso che chi oggi vuol dirsi realista o meglio vorrebbe provare ancora a connettere l’architettura alla realtà non vuole e non vorrebbe sognare, ritiene che la ragione sia incorporata all’architettura e vorrebbe contrapporre ai mostri e all’utopia forme reali concrete ma soprattutto adeguate a conoscere e a riconoscere la realtà. L’architettura in altri termini non può - costitutivamente - essere una favola, una manifestazione evanescente, naturalistica, iperrealistica o surrealistica della realtà che ci circonda, una mera rappresentazione di essa ma piuttosto dovrebbe proporre una sua modificazione, un suo miglioramento. Non può essere schiava delle mode passeggere contraddicendo ogni volta le sue premesse, non può puntare solo all’espressione soggettiva dell’artista in cui, come dice Borges, «il pensiero che un solo uomo può formare non tocca nessuno» e per non diventare solipsistica espressione del mercato deve tentare di proporre un ordine razionale e per ciò stesso intellegibile in cui la razionalità non è “astratta” ma “estratta”, sussunta, dalla realtà delle cose della vita.
2013
9788838762321
Cosa non può essere una architettura realista / Capozzi, Renato. - STAMPA. - 634:(2013), pp. 224-233.
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