L’architetto rappresenta uno dei più temerari prodotti dell’incontro delle “due culture” di cui parlava Snow nel suo celebre libretto. E allora, se nel costituirsi come “scienza sui generis” l’architettura rappresenta già un incontro tra saperi, dov’è il problema? Beh, il problema è nel fatto che, nel lavoro degli architetti, l’incontro di questi saperi non si traduce (almeno non tanto spesso) in una equilibrata “composizione” delle ragioni migliori di quegli stessi saperi. La loro contaminazione viene compiuta in funzione del concreto esercizio di un “mestiere” che è al tempo stesso un’arte e una tecnica; ha radici antiche ma è molto sensibile alle fascinazioni del progresso tecnologico; è ineludibilmente legato a una “committenza” – che non di rado assume la dimensione del Potere; lascia tracce solide e stabili, che in passato hanno saputo sfidare l’ingiuria di tempi di lunga durata; e nello stesso tempo è destinato a essere “utile” nel presente, misurandosi con le ragioni contingenti della politica e dell’economia. E allora è giusto tirare in ballo l’architettura - e la sua problematica relazione con il potere - in una discussione che investiga il rapporto tra i saperi e “l’autentica dimensione della persona, con la sua dignità e con aspirazioni ed aspettative bisognose di modelli di organizzazione economica e sociale equi e sostenibili, orientati alla riaffermazione di valori affrancati dalla mortificazione delle mode e dall’usura delle stagioni”. E’ giusto tirare in ballo l’architettura – e la sua disponibilità nei confronti delle più avveniristiche ipotesi sul futuro – in un consesso che si muove “in una prospettiva storica e metodologica del rapporto tra umanesimo, scienza e tecnologia, sensibile al ruolo del diritto e delle scienze umane nella salvaguardia dei valori in contesti tecnologicamente evoluti”. E’ giusto, quindi, interrogare l’architettura a proposito della convergenza tra i suoi “valori” disciplinari, quelli che costruiscono la sua specifica “cultura”, e la sua funzione sociale. E poiché quest’ultima deve accordarsi con le caratteristiche del tempo in cui agisce e non può fare a meno di misurarsi con le strutture politiche ed economiche chiamate a commissionare e a costruire le architetture (e qui, evidentemente non stiamo parlando solo degli edifici ma, come diceva William Morris, “dell'insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane”), è giusto, allora, interrogare l’architettura sul suo rapporto con la democrazia. Lo si potrebbe fare in molti modi, perché il discorso sulla democrazia – almeno quanto quello sull’architettura – si può prendere da molti lati, a cominciare dal fatto che “nel linguaggio comune usiamo la parola ‘democrazia’ sia per indicare un ideale sia per designare una cosa reale che solo parzialmente realizza quell’ideale” . E allora, non potendo qui prenderlo da tutti i lati, questo discorso su architettura e democrazia lo prendiamo proprio dai due lati estremi, identificati da Robert Dahl, anche in onore della logica oppositiva che sovrintende a molti dei discorsi del nostro tempo postmoderno.
Architettura e democrazia / Amirante, Roberta. - (2015), pp. 122-136.
Architettura e democrazia
AMIRANTE, ROBERTA
2015
Abstract
L’architetto rappresenta uno dei più temerari prodotti dell’incontro delle “due culture” di cui parlava Snow nel suo celebre libretto. E allora, se nel costituirsi come “scienza sui generis” l’architettura rappresenta già un incontro tra saperi, dov’è il problema? Beh, il problema è nel fatto che, nel lavoro degli architetti, l’incontro di questi saperi non si traduce (almeno non tanto spesso) in una equilibrata “composizione” delle ragioni migliori di quegli stessi saperi. La loro contaminazione viene compiuta in funzione del concreto esercizio di un “mestiere” che è al tempo stesso un’arte e una tecnica; ha radici antiche ma è molto sensibile alle fascinazioni del progresso tecnologico; è ineludibilmente legato a una “committenza” – che non di rado assume la dimensione del Potere; lascia tracce solide e stabili, che in passato hanno saputo sfidare l’ingiuria di tempi di lunga durata; e nello stesso tempo è destinato a essere “utile” nel presente, misurandosi con le ragioni contingenti della politica e dell’economia. E allora è giusto tirare in ballo l’architettura - e la sua problematica relazione con il potere - in una discussione che investiga il rapporto tra i saperi e “l’autentica dimensione della persona, con la sua dignità e con aspirazioni ed aspettative bisognose di modelli di organizzazione economica e sociale equi e sostenibili, orientati alla riaffermazione di valori affrancati dalla mortificazione delle mode e dall’usura delle stagioni”. E’ giusto tirare in ballo l’architettura – e la sua disponibilità nei confronti delle più avveniristiche ipotesi sul futuro – in un consesso che si muove “in una prospettiva storica e metodologica del rapporto tra umanesimo, scienza e tecnologia, sensibile al ruolo del diritto e delle scienze umane nella salvaguardia dei valori in contesti tecnologicamente evoluti”. E’ giusto, quindi, interrogare l’architettura a proposito della convergenza tra i suoi “valori” disciplinari, quelli che costruiscono la sua specifica “cultura”, e la sua funzione sociale. E poiché quest’ultima deve accordarsi con le caratteristiche del tempo in cui agisce e non può fare a meno di misurarsi con le strutture politiche ed economiche chiamate a commissionare e a costruire le architetture (e qui, evidentemente non stiamo parlando solo degli edifici ma, come diceva William Morris, “dell'insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane”), è giusto, allora, interrogare l’architettura sul suo rapporto con la democrazia. Lo si potrebbe fare in molti modi, perché il discorso sulla democrazia – almeno quanto quello sull’architettura – si può prendere da molti lati, a cominciare dal fatto che “nel linguaggio comune usiamo la parola ‘democrazia’ sia per indicare un ideale sia per designare una cosa reale che solo parzialmente realizza quell’ideale” . E allora, non potendo qui prenderlo da tutti i lati, questo discorso su architettura e democrazia lo prendiamo proprio dai due lati estremi, identificati da Robert Dahl, anche in onore della logica oppositiva che sovrintende a molti dei discorsi del nostro tempo postmoderno.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.