Lo spessore criminale delle detenute sembra essere assai esiguo se comparato ai grandi numeri della popolazione carceraria maschile che rappresenta più del 95% del totale. Una giustizia che assuma un volto umano non può prescindere da questa minoranza penitenziaria, perché come aveva sostenuto il cardinale Martini, deve essere prima di tutto riparativa, ovvero in cui la pena, come stabilito dall’art. 27 Cost., non deve mai essere contraria al senso di umanità. Le donne, invece, da troppo tempo hanno subito una doppia pena legata allo stato di restrizione a causa della devianza sociale o criminale e dall’intento di purificazione. Il nostro ordinamento penitenziario, anziché tutelare la “donna in quanto donna”, si è limitato a disciplinare la maternità in carcere con alcune leggi fondamentali come la l. 8 marzo 2001, n. 40 e l. 21 aprile 2011, n. 62, che hanno modulato la detenzione domiciliare ordinaria e speciale delle madri, per meglio ampliare le possibilità di tutela del loro rapporto con i figli. Il principio umanitario ha ispirato anche la Consulta che ha riconosciuto la concessione della detenzione domiciliare alle madri per la tutela dei figli a prescindere dalla loro età, perché portatori di handicap totalmente invalidanti (sent. Corte cost. n. 350 del 2003) al fine di garantire loro la continuità delle relazioni familiari. Questa giurisprudenza costituzionale è stata recentemente integrata dalla pronuncia 18/2020, che ha affrontato la complessa questione delle madri detenute, colpevoli di reati connessi a quelli ostativi e caregivers di figli gravemente disabili. I tempi sembrano maturi per sviluppare politiche sensibili alle questioni di genere e per adottare misure concrete per fare fronte alle specifiche necessità delle donne detenute. Il riconoscimento della diversità di genere va al di là delle specifiche disposizioni legate alla gestazione e maternità in carcere. Occorre, infatti, individuare i diritti fondamentali come l’istruzione e il diritto alla salute che per troppo tempo sono stati ancillari ad un modello maschile carcerario. Sarebbe necessario approfittare della crisi pandemica da Covid-19 per ripensare il carcere, magari separando il modello maschile di Justice Model, orientato in senso retributivo in una logica garantista, da quello femminile, ispirato al Care Model, ovvero all’etica della responsabilità. Il decisore politico potrebbe dimostrare di prendere in seria considerazione la questione delle donne carcerate, incominciando dall’abolizione delle sezioni femminili all’interno degli istituti di pena maschili, attuando cioè una politica volta a rendere il carcere meno disumano.
Lo spessore criminale delle detenute / Chiola, Giovanni. - (2021), pp. 98-114.
Lo spessore criminale delle detenute
GIOVANNI CHIOLA
2021
Abstract
Lo spessore criminale delle detenute sembra essere assai esiguo se comparato ai grandi numeri della popolazione carceraria maschile che rappresenta più del 95% del totale. Una giustizia che assuma un volto umano non può prescindere da questa minoranza penitenziaria, perché come aveva sostenuto il cardinale Martini, deve essere prima di tutto riparativa, ovvero in cui la pena, come stabilito dall’art. 27 Cost., non deve mai essere contraria al senso di umanità. Le donne, invece, da troppo tempo hanno subito una doppia pena legata allo stato di restrizione a causa della devianza sociale o criminale e dall’intento di purificazione. Il nostro ordinamento penitenziario, anziché tutelare la “donna in quanto donna”, si è limitato a disciplinare la maternità in carcere con alcune leggi fondamentali come la l. 8 marzo 2001, n. 40 e l. 21 aprile 2011, n. 62, che hanno modulato la detenzione domiciliare ordinaria e speciale delle madri, per meglio ampliare le possibilità di tutela del loro rapporto con i figli. Il principio umanitario ha ispirato anche la Consulta che ha riconosciuto la concessione della detenzione domiciliare alle madri per la tutela dei figli a prescindere dalla loro età, perché portatori di handicap totalmente invalidanti (sent. Corte cost. n. 350 del 2003) al fine di garantire loro la continuità delle relazioni familiari. Questa giurisprudenza costituzionale è stata recentemente integrata dalla pronuncia 18/2020, che ha affrontato la complessa questione delle madri detenute, colpevoli di reati connessi a quelli ostativi e caregivers di figli gravemente disabili. I tempi sembrano maturi per sviluppare politiche sensibili alle questioni di genere e per adottare misure concrete per fare fronte alle specifiche necessità delle donne detenute. Il riconoscimento della diversità di genere va al di là delle specifiche disposizioni legate alla gestazione e maternità in carcere. Occorre, infatti, individuare i diritti fondamentali come l’istruzione e il diritto alla salute che per troppo tempo sono stati ancillari ad un modello maschile carcerario. Sarebbe necessario approfittare della crisi pandemica da Covid-19 per ripensare il carcere, magari separando il modello maschile di Justice Model, orientato in senso retributivo in una logica garantista, da quello femminile, ispirato al Care Model, ovvero all’etica della responsabilità. Il decisore politico potrebbe dimostrare di prendere in seria considerazione la questione delle donne carcerate, incominciando dall’abolizione delle sezioni femminili all’interno degli istituti di pena maschili, attuando cioè una politica volta a rendere il carcere meno disumano.File | Dimensione | Formato | |
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