Assimilata all’arabesco per la sua facoltà di combinare i contrari e sovrapporre ridicolo e sublime, la poetica del grottesco già con Victor Hugo si rivelava prassi efficace a rendere la complessità del moderno. Lungo gli orizzonti novecenteschi dell’umorismo di Pirandello, il grottesco si fissa nella forma inquietante di una bocca spalancata che accoglie allo stesso tempo risate e lacrime. Se già in Leopardi «la disperazione aveva sempre nella bocca un sorriso» (Dialogo di Timandro e Eleandro), sul palcoscenico pirandelliano, più del pianto, diventa il riso la maschera teatrale del dolore: una smorfia grottesca, allegorica che, nell’impossibilità del tragico, lacera trame e corpi. Profondamente contaminato con il farsesco, il tragico pirandelliano è segnato da una radicale metamorfosi delle sue strutture tradizionali. Un punto di appoggio per questa ibridazione delle forme è offerto dall’accostamento tra tragico e umoristico che affiora nella parte finale di Komik und Humor di Theodor Lipps (1898), una delle fonti maggiori e meno studiate de L’umorismo pirandelliano. Quando Lipps chiama in causa la categoria del tragico, lo definisce, infatti, «fratello» dell’umorismo, teorizzando una «Erhabenheit», una «sublimità» anche del comico e dell’umoristico. Nell’universo pirandelliano, dove è la dissonanza la nota dominante, il suo suono «fuori di chiave» che si diffonde nel vuoto di un tragico ormai impossibile, sempre più si distingue l’effetto acustico di una risata cupa, simile a quello della risata «dianoetica» di Beckett, risus purus. Un suono che agghiaccia e che tende a isolarsi sul palco, a echeggiare nell’abisso senza riempirlo, anzi acquistando una nuova forza di cancellazione, annientando ogni altra forma di riso.
Alterazioni di una bocca che ride: dall’umorismo inconciliato di Theodor Lipps alla risata dianoetica pirandelliana / Acocella, Silvia. - (2023), pp. 71-84.
Alterazioni di una bocca che ride: dall’umorismo inconciliato di Theodor Lipps alla risata dianoetica pirandelliana
Silvia Acocella
2023
Abstract
Assimilata all’arabesco per la sua facoltà di combinare i contrari e sovrapporre ridicolo e sublime, la poetica del grottesco già con Victor Hugo si rivelava prassi efficace a rendere la complessità del moderno. Lungo gli orizzonti novecenteschi dell’umorismo di Pirandello, il grottesco si fissa nella forma inquietante di una bocca spalancata che accoglie allo stesso tempo risate e lacrime. Se già in Leopardi «la disperazione aveva sempre nella bocca un sorriso» (Dialogo di Timandro e Eleandro), sul palcoscenico pirandelliano, più del pianto, diventa il riso la maschera teatrale del dolore: una smorfia grottesca, allegorica che, nell’impossibilità del tragico, lacera trame e corpi. Profondamente contaminato con il farsesco, il tragico pirandelliano è segnato da una radicale metamorfosi delle sue strutture tradizionali. Un punto di appoggio per questa ibridazione delle forme è offerto dall’accostamento tra tragico e umoristico che affiora nella parte finale di Komik und Humor di Theodor Lipps (1898), una delle fonti maggiori e meno studiate de L’umorismo pirandelliano. Quando Lipps chiama in causa la categoria del tragico, lo definisce, infatti, «fratello» dell’umorismo, teorizzando una «Erhabenheit», una «sublimità» anche del comico e dell’umoristico. Nell’universo pirandelliano, dove è la dissonanza la nota dominante, il suo suono «fuori di chiave» che si diffonde nel vuoto di un tragico ormai impossibile, sempre più si distingue l’effetto acustico di una risata cupa, simile a quello della risata «dianoetica» di Beckett, risus purus. Un suono che agghiaccia e che tende a isolarsi sul palco, a echeggiare nell’abisso senza riempirlo, anzi acquistando una nuova forza di cancellazione, annientando ogni altra forma di riso.File | Dimensione | Formato | |
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