Nell’ambito della controversia de fine, descritta nel De generibus controversiarum, Igino riferisce che il passaggio (iter) non può essere acquisito attraverso un usus biennale, in quanto necessario per accedere alla parte coltivata (quia ad culturas perveniatur). In questa sede si intende chiarire se il termine iter, nel luogo che qui interessa, sia usato dal gromatico in senso tecnico-giuridico, per indicare una servitú di passaggio, o in modo assolutamente generico, nell’accezione di sede stradale, percorso, passaggio, sentiero. Verosimilmente Igino, nel piú ampio ambito dei rapporti di vicinanza tra fondi, avrebbe identificato l’iter con lo spazio di confine della larghezza di cinque o sei piedi che i proprietari dovevano lasciare libero allo scopo di accedervi con i lori animali e di svoltare l’aratro senza invadere o danneggiare le terre contigue. L’iter, un sentiero di latitudo piuttosto modeste, sufficienti a permettere il passaggio pedonale, ebbe, infatti, dimensioni abbastanza varie, così come la servitú di iter per la quale sarebbe mancata una larghezza legale sussidiaria. Il termine iter, dunque, sarebbe usato da Igino nel passo discusso non in senso tecnico-giuridico per indicare un ius itinerum, ma in senso lato per chiarire il tipo di strada campestre destinato all’accesso alle aree coltivate e al giro dell’aratro. Il divieto di usucapione, quindi, avrebbe la sua ratio giustificativa soprattutto nell’esigenza di ciascun proprietario di accedere liberamente al suo podere attraverso i limites e i fines che dovevano restare liberi da colture per consentire l’iter ad culturas accedentium, e per permettere all’arator di girare senza invadere il fondo del vicino (circumactus aratri). La diversa motivazione avallerebbe l’idea che non di servitú si trattasse in quanto in quel caso il divieto di usucapione, imposto per necessità pratiche e cioè per evitare che i fondi subissero un peso eccessivo, era sancito da un’apposita legge, la lex Scribonia appunto.
L’«iter culturas accedentium» e le servitù di passaggio: ancora su Grom. vet. 126.3-8 L / Tuccillo, Fabiana. - In: INDEX. QUADERNI CAMERTI DI STUDI ROMANISTICI. - ISSN 0392-2391. - 35:35(2007), pp. 125-139.
L’«iter culturas accedentium» e le servitù di passaggio: ancora su Grom. vet. 126.3-8 L.
TUCCILLO, FABIANA
2007
Abstract
Nell’ambito della controversia de fine, descritta nel De generibus controversiarum, Igino riferisce che il passaggio (iter) non può essere acquisito attraverso un usus biennale, in quanto necessario per accedere alla parte coltivata (quia ad culturas perveniatur). In questa sede si intende chiarire se il termine iter, nel luogo che qui interessa, sia usato dal gromatico in senso tecnico-giuridico, per indicare una servitú di passaggio, o in modo assolutamente generico, nell’accezione di sede stradale, percorso, passaggio, sentiero. Verosimilmente Igino, nel piú ampio ambito dei rapporti di vicinanza tra fondi, avrebbe identificato l’iter con lo spazio di confine della larghezza di cinque o sei piedi che i proprietari dovevano lasciare libero allo scopo di accedervi con i lori animali e di svoltare l’aratro senza invadere o danneggiare le terre contigue. L’iter, un sentiero di latitudo piuttosto modeste, sufficienti a permettere il passaggio pedonale, ebbe, infatti, dimensioni abbastanza varie, così come la servitú di iter per la quale sarebbe mancata una larghezza legale sussidiaria. Il termine iter, dunque, sarebbe usato da Igino nel passo discusso non in senso tecnico-giuridico per indicare un ius itinerum, ma in senso lato per chiarire il tipo di strada campestre destinato all’accesso alle aree coltivate e al giro dell’aratro. Il divieto di usucapione, quindi, avrebbe la sua ratio giustificativa soprattutto nell’esigenza di ciascun proprietario di accedere liberamente al suo podere attraverso i limites e i fines che dovevano restare liberi da colture per consentire l’iter ad culturas accedentium, e per permettere all’arator di girare senza invadere il fondo del vicino (circumactus aratri). La diversa motivazione avallerebbe l’idea che non di servitú si trattasse in quanto in quel caso il divieto di usucapione, imposto per necessità pratiche e cioè per evitare che i fondi subissero un peso eccessivo, era sancito da un’apposita legge, la lex Scribonia appunto.File | Dimensione | Formato | |
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