Nel saggio su Roscher e Knies Max Weber cita un passo dello scritto di Schopenhauer Sulla Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente: «Già Schopenhauer ha detto una volta che la causalità “non è una carrozza che si può far fermare a piacimento”». Contestaulizzare in maniera adeguata questa citazione significa far emergere un importante problema ppreliminare della riflessione weberiana sulle scienze storiche della cultura, discipline che si radicano sempre in un punto di vista di valore e che (giusta la celebre definizione di Economia e Società) hanno come proprio compito specifico quello di comprendere interpretativamente e quindi di spiegare casualmente l’agire umano, ossia ogni fare, subire o tralasciare cui l’agente o gli agenti conferiscono soggettivamente un senso. Occorre infatti giungere a una posizione chiara su ciò che queste scienze intendono, allorché fanno riferimento alla nozione della “libertà del volere”, cui l’idea di un agire soggettivamente dotato di senso (e perciò suscettibile di una comprensione interpretativa) appare, per certi versi, strettamente legata. La difficoltà nasce dalla circostanza che le scienze in questione sono pur sempre scienze empiriche che hanno mangiato «il frutto dell’albero della conoscenza» e non possono, come tali, rapportarsi al principio di causalità (al principio delle condizioni d’esistenza) come a qualcosa che si possa sospendere a piacimento, fermandolo come una vettura di piazza. Lo studio procede in primo luogo a mostrare come – tramite una ricezione puntuale e nel contempo mirata delle analisi logiche di Rickert sul concetto di “connessione causale storica” (distinto sia da quello di “principio causale” che da quello di “legge causale”) – Weber rifiuti con nettezza la doppia identificazione tra “causalità” e “legalità” (proprie dell’accadere naturale) e “libertà” e “individualità” (proprie dell’agire umano), su cui concordano significativamente tanto i fautori di un imperialismo del metodo scientifico-naturale quanto coloro che pretendono di opporsi a tale imperialismo supportando «l’illusione che una determinata convinzione filosofica (cioè una convinzione anti-deterministica) costituisca il presupposto del metodo storico». La nozione di libertà del volere cui fanno riferimento le scienze storiche della cultura non può dunque configurasi come una versione “degenerata” della dottrina kantiana della “causalità mediante la libertà”, ma deve piuttosto far perno su una possibilità effettivamente propria dell’accadere individuale umano rispetto a ogni altro tipo di accadere individuale: quella di essere non solo concepito come compatibile col nostro sapere nomologico, ma anche compreso e interpretato, ossia imputato a motivazioni concrete interiormente rivivibili (su questo punto è esplicito e importante il richiamo di Weber a Dilthey). Un simile concetto di “libertà del volere” non ha alcun bisogno di mettere in mora l’«a priori» della «validità universale del “determinismo”», giacché si configura – in piena conformità col nostro «“sentimento della libertà”» inteso «in senso empirico» – come la nozione tipico-ideale di un fare, subire o tralasciare umani la cui “ragion sufficiente” risiede tutta nei motivi consapevoli dell’agente e, più specificamente, negli scopi che esso consapevolmente si propone. Naturalmente in Weber l’insieme di queste considerazioni “metodologiche” sul principio di causalità e sulla “libertà del volere” nelle scienze storiche della cultura è strettamente connessa a un problema che in lui è assolutamente centrale. Si tratta, per certi versi, del problema stesso della conoscenza storica, che affonda le sue radici nel «presupposto trascendentale» che «noi siamo esseri culturali [Kulturmenschen]» e muove dunque sempre da un’attribuzione di senso, da un punto di vista di valore, e tuttavia deve essere in grado non soltanto di tradurre questo punto di vista in un’«interpretazione di valore» che non enunci o suggerisca un «giudizio di valore», ma anche di tenere insieme i momenti in sé distinti dell’interpretazione di valore e della spiegazione causale. Tuttavia, in concreto, ciò significa fissare senza infingimenti lo sguardo sul proteiforme intreccio tra due specie di causalità solo relativamente distinte: la cieca causalità dell’accadere e la particolare causalità propria di quei comportamenti umani cui i soggetti agenti attribuiscono un senso, giacché proprio quest’ultima rappresenta, per così dire, il “correlato reale” di ogni possibile punto di vista di valore dello storico.
«La causalità non è un fiacre che si può far fermare quando si vuole»: Weber e la "libertà del volere" nelle scienze storiche della cultura / Massimilla, Edoardo. - In: ATTI DELLA ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI. RENDICONTI. CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE. - ISSN 0391-8181. - STAMPA. - serie IX, volume XX:fascicolo 4, anno CDVI(2009), pp. 751-765.
«La causalità non è un fiacre che si può far fermare quando si vuole»: Weber e la "libertà del volere" nelle scienze storiche della cultura
MASSIMILLA, EDOARDO
2009
Abstract
Nel saggio su Roscher e Knies Max Weber cita un passo dello scritto di Schopenhauer Sulla Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente: «Già Schopenhauer ha detto una volta che la causalità “non è una carrozza che si può far fermare a piacimento”». Contestaulizzare in maniera adeguata questa citazione significa far emergere un importante problema ppreliminare della riflessione weberiana sulle scienze storiche della cultura, discipline che si radicano sempre in un punto di vista di valore e che (giusta la celebre definizione di Economia e Società) hanno come proprio compito specifico quello di comprendere interpretativamente e quindi di spiegare casualmente l’agire umano, ossia ogni fare, subire o tralasciare cui l’agente o gli agenti conferiscono soggettivamente un senso. Occorre infatti giungere a una posizione chiara su ciò che queste scienze intendono, allorché fanno riferimento alla nozione della “libertà del volere”, cui l’idea di un agire soggettivamente dotato di senso (e perciò suscettibile di una comprensione interpretativa) appare, per certi versi, strettamente legata. La difficoltà nasce dalla circostanza che le scienze in questione sono pur sempre scienze empiriche che hanno mangiato «il frutto dell’albero della conoscenza» e non possono, come tali, rapportarsi al principio di causalità (al principio delle condizioni d’esistenza) come a qualcosa che si possa sospendere a piacimento, fermandolo come una vettura di piazza. Lo studio procede in primo luogo a mostrare come – tramite una ricezione puntuale e nel contempo mirata delle analisi logiche di Rickert sul concetto di “connessione causale storica” (distinto sia da quello di “principio causale” che da quello di “legge causale”) – Weber rifiuti con nettezza la doppia identificazione tra “causalità” e “legalità” (proprie dell’accadere naturale) e “libertà” e “individualità” (proprie dell’agire umano), su cui concordano significativamente tanto i fautori di un imperialismo del metodo scientifico-naturale quanto coloro che pretendono di opporsi a tale imperialismo supportando «l’illusione che una determinata convinzione filosofica (cioè una convinzione anti-deterministica) costituisca il presupposto del metodo storico». La nozione di libertà del volere cui fanno riferimento le scienze storiche della cultura non può dunque configurasi come una versione “degenerata” della dottrina kantiana della “causalità mediante la libertà”, ma deve piuttosto far perno su una possibilità effettivamente propria dell’accadere individuale umano rispetto a ogni altro tipo di accadere individuale: quella di essere non solo concepito come compatibile col nostro sapere nomologico, ma anche compreso e interpretato, ossia imputato a motivazioni concrete interiormente rivivibili (su questo punto è esplicito e importante il richiamo di Weber a Dilthey). Un simile concetto di “libertà del volere” non ha alcun bisogno di mettere in mora l’«a priori» della «validità universale del “determinismo”», giacché si configura – in piena conformità col nostro «“sentimento della libertà”» inteso «in senso empirico» – come la nozione tipico-ideale di un fare, subire o tralasciare umani la cui “ragion sufficiente” risiede tutta nei motivi consapevoli dell’agente e, più specificamente, negli scopi che esso consapevolmente si propone. Naturalmente in Weber l’insieme di queste considerazioni “metodologiche” sul principio di causalità e sulla “libertà del volere” nelle scienze storiche della cultura è strettamente connessa a un problema che in lui è assolutamente centrale. Si tratta, per certi versi, del problema stesso della conoscenza storica, che affonda le sue radici nel «presupposto trascendentale» che «noi siamo esseri culturali [Kulturmenschen]» e muove dunque sempre da un’attribuzione di senso, da un punto di vista di valore, e tuttavia deve essere in grado non soltanto di tradurre questo punto di vista in un’«interpretazione di valore» che non enunci o suggerisca un «giudizio di valore», ma anche di tenere insieme i momenti in sé distinti dell’interpretazione di valore e della spiegazione causale. Tuttavia, in concreto, ciò significa fissare senza infingimenti lo sguardo sul proteiforme intreccio tra due specie di causalità solo relativamente distinte: la cieca causalità dell’accadere e la particolare causalità propria di quei comportamenti umani cui i soggetti agenti attribuiscono un senso, giacché proprio quest’ultima rappresenta, per così dire, il “correlato reale” di ogni possibile punto di vista di valore dello storico.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.